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Gli artisti disegnano il lavoro |
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“Non è infrequente che la
vivezza del rappresentare il gesto della fatica ci venga data più dal disegno e
dall’incisione che da un dipinto ad olio o da una scultura. Sappiamo che il
segno, nella storia dell’arte, si è dimostrato il mezzo più duttile nella
sperimentazione artistica, e il disegnare il lavoro, quale soggetto centrale
nella produzione di immagini, è di per sé sperimentare, offrire un’idea della
società nuova attraverso le forme dell’arte. E non sarebbe stato possibile
trasfigurare il lavoro, il corpo del lavoratore, secondo modelli estetici
creati per rappresentare la divinità, la nobiltà, i condottieri, la borghesia.
Quindi il segno, la xilografia, l’incisione o la litografia, costituiscono
tecniche creative particolarmente adatte a compiere questo percorso di ricerca
a fronte di nuove pulsioni che il mutare della società pone all’artista”. Sono considerazioni di Luigi
Martini, che leggiamo nel poderoso catalogo (edito da Skira) che accompagna la
mostra “Il lavoro inciso. Capolavori dell’arte grafica da Millet a Vedova”
allestita al Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce, per essere
poi, dal 14 settembre, trasferita alla Fondazione Stelline di Milano. È dalle
litografie di Delacroix, di Courbet e di Daumier e dalle acqueforti di
Jean-François Millet e quindi di Manet, dalla loro trasfigurazione del
paesaggio attraverso le diverse tecniche incisorie, che emerge l’irrompere dei
lavoratori come i nuovi protagonisti delle imponenti trasformazioni in atto
nella società, sullo sfondo di un ambiente che grazie al lavoro viene ad essere
rimodellato ed assumere nuovi connotati: dalle ciminiere che ridisegnano il
profilo delle città ai luoghi d’incontro, dai più moderni mezzi di trasporto
allo sviluppo viario. E ciò contestualmente al nascere e diffondersi di
giornali illustrati, che (prima del diffondersi della fotografia) attraverso il
lavoro incisorio di tanti artisti, rispecchiano il nuovo modo di essere e di
apparire dei luoghi e della società. Cento opere – fra incisioni,
litografie e disegni – realizzate dai grandi maestri europei in oltre un secolo
di storia, dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta del secolo
appena archiviato, tracciano il percorso della mostra (curata da Martini
insieme a Patrizia Foglia e Chiara Gatti e promossa dall’Associazione
Centenario Cgil), affrontando il rapporto tra il tema del lavoro e
l’evoluzione, dalla tradizione alla modernità, del linguaggio grafico. In
particolare, l’esposizione si concentra sulla stretta connessione fra il mondo
dei lavoratori e quello degli artisti che con maggiore sensibilità si fecero
interpreti di condizioni sociali, movimenti e anche lotte per l’emancipazione,
utilizzando nelle diverse tecniche il linguaggio grafico, ora come strumento di
denuncia, ora come il mezzo espressivo più idoneo a documentare e ad illustrare
con immediatezza e tempestività. Si parte dalle suggestive
immagini dei “vangatori” e delle “spigolatrici” di Millet, dai butteri di
Fattori, dai pastori di Fontanesi, dai pescatori di Greppi e dai popolani di
Manet, per giungere ad una immagine più collettiva dei fenomeni e dei processi
sociali connessi con il lavoro, con le trasmigrazioni delle popolazioni nei
grandi centri urbani, che vedono di conseguenza rinnovare la propria fisionomia
in forza dello sviluppo edilizio e dell’espansione industriale; immagine che
viene colta e riprodotta (siamo a cavallo tra Otto e Novecento) da artisti come
Signorini, Crane, Liebermann, Boccioni e Pellizza da Volpedo, di cui viene
esposto un cartone preparatorio per la figura centrale di “Fiumana”, opera di
forte carica simbolica, che rappresenta un passaggio ideale al mondo moderno e
alla presa di coscienza, da parte dei lavoratori, della propria forza sociale,
che irrompe nella storia con dignità e fermezza. C’è un comune denominatore che
è alla base di una folta “categoria” di artisti i quali, a livello europeo,
condividono, una convergente istanza per la valorizzazione del linguaggio
grafico, da una parte, e per il superamento di una forte distanza, creatasi sul
finire dell’Ottocento, tra arte e società; l’ambizione di molti di loro (da
Rouault a Kollovitz, da Dix a Grosz, da Beckman al belga Permeke e agli
italiani Viani e Sironi) è quella di diventare e di essere riconosciuti come
“pittori-delegati dei proletari”, per usare una felice espressione di Pierre
Mac Orlan, coniata per il pittore Vlaminck. Nasce da loro un’arte di tipo
documentario, motivata da “impegno” e “partecipazione”, che non mancherà di
avere notevole incidenza su generazioni successive di artisti, alle prese con
fatti storici di portata epocale, come le due guerre mondiali e i rispettivi
“dopoguerra”, con forte impatto sulle tematiche del lavoro e della riconquista
di diritti sociali. Un ampio panorama, a questo punto, la mostra offre sul
“lavoro inciso” di casa nostra, rappresentato da artisti tra i più noti (da
Guttuso a Zigaina, da Vespignani ad Attardi, da Ferroni a Migneco, da Zancanaro
a Vedova) i quali, in un fecondo confronto di ricerche estetiche, danno vita ad
una delle stagioni più interessanti e controverse dell’arte italiana del
Novecento.
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