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Addio raìs
  
di Francesco CACCETTA

Addio raìs

Chissà quali sono gli ultimi pensieri di un potente, gli ultimi sogni, le ultime visioni, le ultime parole, gli ultimi istanti. Chissà come muore un potente nella sua intimità. Come muore un personaggio che ha contribuito con le sue decisioni, con la sua visione delle cose, della politica, della società, del mondo, a scrivere pagine importanti di storia, a essere storia.

Chissà come muore un potente che è mito, che è leggenda. Chissà quale è l’aura che si respira in quella stanza, in quell’ultimo giaciglio, in quell’avamposto dell’aldilà che ti rende uguale a tutti, che ti rende più prossimo a te stesso, che confonde il passato con il presente e che di fatto annulla il futuro. Chissà come è morto Yasser Arafat, il raìs, l’icona, il simbolo per eccellenza della terra di Palestina. Chissà cosa avrà pensato negli ultimi concitati giorni della sua vita, cosa sarà balenato per ultimo nella sua mente, forse già offuscata prepotentemente dai farmaci e stordita dalle inutili ed obbligate terapie intensive. E’ morto, inevitabilmente, nonostante tutto, per decisione ineludibile di una Parca che alla fine ha spento quel collegamento, ormai solo virtuale, alla vita, alla dimensione terrena. Ed Arafat muore così semplicemente, nella lontana e vicinissima Parigi, alla fine di un delirio di voci, di speranze, di supposizioni, di smentite, di freddi e concisi bollettini medici. Muore quasi tradizionalmente, lasciando ai posteri le consuete e velenosissime supposizioni di avvelenamenti, di omicidi sussurrati, di trame segrete ordite con sapienza, di intrighi internazionali, di giochi di potere. Muore così con i misteri che da sempre accompagnano le morti degli uomini celebri, degli uomini potenti.

E muore in fondo anche come un uomo comune. Muore con le diatribe familiari, muore con l’immagine di una ritrovata moglie, fino a ieri lontana, muore con l’abbraccio ossessivo dei suoi sottoposti, con le richieste di soldi, di vitalizi, di tesori nascosti o stornati ad una causa. E va via nella sua terra per l’ultimo abbraccio, per l’ultimo incitamento alla vittoria, per essere consegnato alla gloria del suo popolo. Ma la morte di Arafat non è solo la morte di un uomo. Muore con lui un sogno ed un simbolo, muore uno fra i più laceranti uomini del dopoguerra, un immagine fortissima e non sempre nitida del nostro Novecento. Muore il sogno di una Terra, di una Patria, di una Nazione. Il sogno di uno Stato a lungo vagheggiato, a lungo inseguito. Muore con lui il simbolo della lotta di tutto il popolo palestinese. Muore con lui la sua vita politica condotta nel solco di un bizantino equilibrio che poggiava nella contraddizione fortissima e dolorosissima fra il ramoscello di ulivo e la pistola, fra la divisa militare e la Kefiah divenuta simbolo di appartenenza e di identità, simbolo della lotta palestinese.  Muore con lui quell’equilibrio surreale che ha sapientemente saputo realizzare fra ragione e speranza, fra diplomazia e scaltrezza, fra pace e terrore, fra fratellanza e violenza. Una violenza estrema portata tragicamente fuori dalla sua terra per esportare una ragione che, spinta fino al delirio, fino al fanatismo, ha finito per identificare la Palestina con il terrorismo.

È la storia dell’Intifada, la storia di Hamas. Un torto subito che ha generato paura e morte, che è stato moltiplicatore inesorabile di lotte e di lutti. Muore con lui la contraddizione più evidente che è stata, e purtroppo è ancora, la lotta per la Palestina con i suoi errori strategici, con i suoi sbagli politici, con i suoi orrori, con le sue giuste rivendicazioni, con i suoi aneliti, con i suoi diritti negati, con le tante assurde morti di incoscienti e di innocenti, con le tante famiglie dilaniate, con i tanti giovani ubriacati di odio. Muore per la storia un uomo già morto da tempo. Una morte finale che sancisce l’uscita di scena di Arafat. Scompare l’interlocutore internazionale ascoltato e temuto, incoraggiato ed amato, ricercato e difeso. Scompare il vero ed unico punto di equilibrio di tutto il popolo palestinese. Una morte che è anche sconfitta di un progetto e di una strategia politica che non è riuscita ad affrancarsi dal terrorismo, da quel delirio di morte voluta ed invocata per se stessi e per gli altri fino al fanatismo. Muore con Arafat la punta di diamante di una grande questione palestinese insoluta nonostante tutto, nonostante i tanti, troppi ed inutili summit, le tante attenzioni, le tante promesse. E muore senza rivedere Gerusalemme, senza esservi sepolto, senza tornare nel cuore del misticismo del suo popolo. Muore nel delirio di un odio che non distingue più. Di un odio che è di Israele, che è dei palestinesi, di un odio che ha concimato così tutto un territorio.

Ed oggi Arafat è già storia, è già successione, è già lotta.  Ed il tempo veloce, il tempo della storia di oggi, il tempo del fast, ingoia inesorabilmente anche lui. Rimane un vuoto profondo, un vuoto politico innanzitutto. Rimane il dubbio del domani prossimo. Rimane l’incognita delle prossime scelte. Cosa rimarrà alla fine di questa storia? Il ramoscello di ulivo o la pistola? La divisa militare o la Kefiah? Ed è questo l’interrogativo pesantissimo che oggi incombe sui destini di due popoli e di riflesso su tutto il Medio Oriente. Ed è questa in fondo l’eredità ultima di Yasser Arafat, il nodo politico da sciogliere. Un’eredità politica pesantissima per un popolo orfano di un leader. Addio raìs.

 

 

 

 


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