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Addio raìs |
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Chissà quali sono gli ultimi
pensieri di un potente, gli ultimi sogni, le ultime visioni, le ultime parole,
gli ultimi istanti. Chissà come muore un potente nella sua intimità. Come muore
un personaggio che ha contribuito con le sue decisioni, con la sua visione
delle cose, della politica, della società, del mondo, a scrivere pagine
importanti di storia, a essere storia. Chissà come muore un potente che
è mito, che è leggenda. Chissà quale è l’aura che si respira in quella stanza,
in quell’ultimo giaciglio, in quell’avamposto dell’aldilà che ti rende uguale a
tutti, che ti rende più prossimo a te stesso, che confonde il passato con il
presente e che di fatto annulla il futuro. Chissà come è morto Yasser Arafat,
il raìs, l’icona, il simbolo per eccellenza della terra di Palestina. Chissà
cosa avrà pensato negli ultimi concitati giorni della sua vita, cosa sarà
balenato per ultimo nella sua mente, forse già offuscata prepotentemente dai
farmaci e stordita dalle inutili ed obbligate terapie intensive. E’ morto,
inevitabilmente, nonostante tutto, per decisione ineludibile di una Parca che
alla fine ha spento quel collegamento, ormai solo virtuale, alla vita, alla
dimensione terrena. Ed Arafat muore così semplicemente, nella lontana e
vicinissima Parigi, alla fine di un delirio di voci, di speranze, di
supposizioni, di smentite, di freddi e concisi bollettini medici. Muore quasi
tradizionalmente, lasciando ai posteri le consuete e velenosissime supposizioni
di avvelenamenti, di omicidi sussurrati, di trame segrete ordite con sapienza,
di intrighi internazionali, di giochi di potere. Muore così con i misteri che
da sempre accompagnano le morti degli uomini celebri, degli uomini potenti. E muore in fondo anche come un
uomo comune. Muore con le diatribe familiari, muore con l’immagine di una
ritrovata moglie, fino a ieri lontana, muore con l’abbraccio ossessivo dei suoi
sottoposti, con le richieste di soldi, di vitalizi, di tesori nascosti o
stornati ad una causa. E va via nella sua terra per l’ultimo abbraccio, per
l’ultimo incitamento alla vittoria, per essere consegnato alla gloria del suo
popolo. Ma la morte di Arafat non è solo la morte di un uomo. Muore con lui un
sogno ed un simbolo, muore uno fra i più laceranti uomini del dopoguerra, un
immagine fortissima e non sempre nitida del nostro Novecento. Muore il sogno di
una Terra, di una Patria, di una Nazione. Il sogno di uno Stato a lungo
vagheggiato, a lungo inseguito. Muore con lui il simbolo della lotta di tutto
il popolo palestinese. Muore con lui la sua vita politica condotta nel solco di
un bizantino equilibrio che poggiava nella contraddizione fortissima e
dolorosissima fra il ramoscello di ulivo e la pistola, fra la divisa militare e
la Kefiah divenuta simbolo di appartenenza e di identità, simbolo della lotta
palestinese. Muore con lui
quell’equilibrio surreale che ha sapientemente saputo realizzare fra ragione e
speranza, fra diplomazia e scaltrezza, fra pace e terrore, fra fratellanza e
violenza. Una violenza estrema portata tragicamente fuori dalla sua terra per
esportare una ragione che, spinta fino al delirio, fino al fanatismo, ha finito
per identificare la Palestina con il terrorismo. È la storia dell’Intifada, la
storia di Hamas. Un torto subito che ha generato paura e morte, che è stato moltiplicatore
inesorabile di lotte e di lutti. Muore con lui la contraddizione più evidente
che è stata, e purtroppo è ancora, la lotta per la Palestina con i suoi errori
strategici, con i suoi sbagli politici, con i suoi orrori, con le sue giuste
rivendicazioni, con i suoi aneliti, con i suoi diritti negati, con le tante
assurde morti di incoscienti e di innocenti, con le tante famiglie dilaniate,
con i tanti giovani ubriacati di odio. Muore per la storia un uomo già morto da
tempo. Una morte finale che sancisce l’uscita di scena di Arafat. Scompare
l’interlocutore internazionale ascoltato e temuto, incoraggiato ed amato,
ricercato e difeso. Scompare il vero ed unico punto di equilibrio di tutto il
popolo palestinese. Una morte che è anche sconfitta di un progetto e di una
strategia politica che non è riuscita ad affrancarsi dal terrorismo, da quel
delirio di morte voluta ed invocata per se stessi e per gli altri fino al
fanatismo. Muore con Arafat la punta di diamante di una grande questione
palestinese insoluta nonostante tutto, nonostante i tanti, troppi ed inutili
summit, le tante attenzioni, le tante promesse. E muore senza rivedere
Gerusalemme, senza esservi sepolto, senza tornare nel cuore del misticismo del
suo popolo. Muore nel delirio di un odio che non distingue più. Di un odio che
è di Israele, che è dei palestinesi, di un odio che ha concimato così tutto un
territorio. Ed oggi Arafat è già storia, è
già successione, è già lotta. Ed il
tempo veloce, il tempo della storia di oggi, il tempo del fast, ingoia
inesorabilmente anche lui. Rimane un vuoto profondo, un vuoto politico
innanzitutto. Rimane il dubbio del domani prossimo. Rimane l’incognita delle
prossime scelte. Cosa rimarrà alla fine di questa storia? Il ramoscello di
ulivo o la pistola? La divisa militare o la Kefiah? Ed è questo l’interrogativo
pesantissimo che oggi incombe sui destini di due popoli e di riflesso su tutto
il Medio Oriente. Ed è questa in fondo l’eredità ultima di Yasser Arafat, il
nodo politico da sciogliere. Un’eredità politica pesantissima per un popolo
orfano di un leader. Addio raìs.
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