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Bambini in schiavitù
  
di Nicoletta ARCHILEI

Ogni giorno ci vengono mostrate le brutture, gli orrori e le violenze che bambini di ogni angolo del mondo sono costretti a sub

Ogni giorno vediamo le brutture, gli orrori e le violenze che bambini di ogni angolo del mondo sono costretti a subire; chi di noi non è rimasto sconvolto dalle immagini della scuola di Beslan o è in grado, anche solo per un istante, di capire cosa significhi crescere oggi in Iraq?

Ma c’è una quotidianità altrettanto mostruosa nella quale vivono quasi 250 milioni di bambini, una quotidianità nell’ombra, non fatta certo di scoop televisivi, perché la guerra fa più notizia dei bambini che in Nepal lavorano davanti ai telai, chini sotto i carichi di carbone in Colombia o nei laboratori tessili dell’India. Il lavoro minorile è una piaga che coinvolge tutto il mondo, l’87% dei minilavoratori vive nei Paesi in via di sviluppo e uno su quattro lavora almeno 9 ore al giorno per sei giorni alla settimana; 120 milioni lavorano a tempo pieno e 130 milioni solo per una parte della giornata, si calcola che persino negli Stati Uniti lavorino circa 5 milioni e mezzo di ragazzi fra gli 11 e i 15 anni. Dati naturalmente approssimativi, non solo perché chi sfrutta la manodopera minorile si guarda bene dal dichiararlo, ma anche perché molti governi fingono che questo problema nei loro Paesi non esista o non hanno i mezzi per rilevarlo e combatterlo. La prima causa fondamentale del lavoro infantile è la povertà, ma non si può certo affermare che la povertà conduca inevitabilmente a questo tipo di sfruttamento. Dovrebbero andare a scuola, giocare, divertirsi e invece la maggior parte di questi bimbi non ha nemmeno mai messo piede in un’aula scolastica; come ad esempio in Pakistan, nella zona di Sialkot, dove si produce l’80% dei palloni utilizzati nei campi di calcio di tutto il mondo. Qui un cucitore riceve mezzo dollaro a pallone e in una giornata riesce a farne in media tre pezzi, i bambini sono quindi coinvolti in questa attività all’interno delle stesse mura domestiche, infatti, con il guadagno di tre cucitori si riesce a mantenere una famiglia di sette persone. L’inevitabile conseguenza sta nel fatto che vengono messi al mondo molti figli, nonostante situazioni di estrema povertà, su cui poter investire le proprie speranze di un sostentamento economico e forse nell’illusione di un miglioramento sociale.

Il “lavoro familiare” che si svolge in casa o nei campi, in quelle che sono piccole faccende casalinghe, diventa un carico insostenibile per molti adolescenti, costretti ad abbandonare la propria abitazione in cerca di un lavoro apparentemente meno duro e remunerato; è questo il caso di molti baby–lavoratori nelle fabbriche di tappeti a Katmandu (Nepal) dove addirittura le bambine svolgono attività più faticose di quelle dei coetanei maschi e per le quali, in molti Paesi, il loro “naturale” destino è la prostituzione. Di sicuro per i datori di lavoro è un vantaggio avere dei bambini da sfruttare, sottopagare, sono creature indifese e tollerano angherie ed abusi che un adulto difficilmente sopporterebbe e dai quali, per fame e ingenuità, non riescono a liberarsi. Il lavoro precoce è un’ingiustizia e una catena diabolica: una popolazione povera è costretta a mandare i propri figli a lavorare, rendendo così anche le future generazioni analfabete, e più una popolazione rimane nell’ignoranza e più vive nel sottosviluppo e nella povertà; la vera ricchezza di un Paese sono i giovani, e l’istruzione e la conoscenza sono gli unici mezzi per renderli liberi.

Un bambino che vende bevande o semplicemente chiede l’elemosina, è un bambino che lavora, che vive in uno stato di necessità, con una famiglia bisognosa e magari con dei genitori assenti. Il lavoro minorile costringe i bambini a vivere in schiavitù, e riuscire a liberarli non è certo un percorso semplice, perché le cause sono gravi e strutturali, ma non credo ci possano essere giustificazioni per l’inerzia di fronte ad un’ingiustizia così assurda; il lavoro dei bambini è “invisibile” e meno fragoroso di una bomba ma non per questo meno crudele.

La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, art.32, dice: “Gli Stati riconoscono il diritto di ogni bambino ad essere protetto contro lo sfruttamento economico e a non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale…”.

 

 

 


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