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Bambini in schiavitù |
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Ogni giorno vediamo le
brutture, gli orrori e le violenze che bambini di ogni angolo del mondo sono
costretti a subire; chi di noi non è rimasto sconvolto dalle immagini della
scuola di Beslan o è in grado, anche solo per un istante, di capire cosa
significhi crescere oggi in Iraq? Ma
c’è una quotidianità altrettanto mostruosa nella quale vivono quasi 250 milioni
di bambini, una quotidianità nell’ombra, non fatta certo di scoop televisivi,
perché la guerra fa più notizia dei bambini che in Nepal lavorano davanti ai
telai, chini sotto i carichi di carbone in Colombia o nei laboratori tessili
dell’India. Il lavoro minorile è una piaga che coinvolge tutto il mondo, l’87%
dei minilavoratori vive nei Paesi in via di sviluppo e uno su quattro lavora
almeno 9 ore al giorno per sei giorni alla settimana; 120 milioni lavorano a
tempo pieno e 130 milioni solo per una parte della giornata, si calcola che
persino negli Stati Uniti lavorino circa 5 milioni e mezzo di ragazzi fra gli
11 e i 15 anni. Dati naturalmente approssimativi, non solo perché chi sfrutta
la manodopera minorile si guarda bene dal dichiararlo, ma anche perché molti
governi fingono che questo problema nei loro Paesi non esista o non hanno i
mezzi per rilevarlo e combatterlo. La prima causa fondamentale del lavoro
infantile è la povertà, ma non si può certo affermare che la povertà conduca
inevitabilmente a questo tipo di sfruttamento. Dovrebbero andare a scuola,
giocare, divertirsi e invece la maggior parte di questi bimbi non ha nemmeno
mai messo piede in un’aula scolastica; come ad esempio in Pakistan, nella zona
di Sialkot, dove si produce l’80% dei palloni utilizzati nei campi di calcio di
tutto il mondo. Qui un cucitore riceve mezzo dollaro a pallone e in una
giornata riesce a farne in media tre pezzi, i bambini sono quindi coinvolti in
questa attività all’interno delle stesse mura domestiche, infatti, con il
guadagno di tre cucitori si riesce a mantenere una famiglia di sette persone.
L’inevitabile conseguenza sta nel fatto che vengono messi al mondo molti figli,
nonostante situazioni di estrema povertà, su cui poter investire le proprie
speranze di un sostentamento economico e forse nell’illusione di un
miglioramento sociale. Il
“lavoro familiare” che si svolge in casa o nei campi, in quelle che sono
piccole faccende casalinghe, diventa un carico insostenibile per molti
adolescenti, costretti ad abbandonare la propria abitazione in cerca di un
lavoro apparentemente meno duro e remunerato; è questo il caso di molti
baby–lavoratori nelle fabbriche di tappeti a Katmandu (Nepal) dove addirittura
le bambine svolgono attività più faticose di quelle dei coetanei maschi e per
le quali, in molti Paesi, il loro “naturale” destino è la prostituzione. Di
sicuro per i datori di lavoro è un vantaggio avere dei bambini da sfruttare,
sottopagare, sono creature indifese e tollerano angherie ed abusi che un adulto
difficilmente sopporterebbe e dai quali, per fame e ingenuità, non riescono a
liberarsi. Il lavoro precoce è un’ingiustizia e una catena diabolica: una
popolazione povera è costretta a mandare i propri figli a lavorare, rendendo
così anche le future generazioni analfabete, e più una popolazione rimane
nell’ignoranza e più vive nel sottosviluppo e nella povertà; la vera ricchezza
di un Paese sono i giovani, e l’istruzione e la conoscenza sono gli unici mezzi
per renderli liberi. Un bambino che vende
bevande o semplicemente chiede l’elemosina, è un bambino che lavora, che vive
in uno stato di necessità, con una famiglia bisognosa e magari con dei genitori
assenti. Il lavoro minorile costringe i bambini a vivere in schiavitù, e
riuscire a liberarli non è certo un percorso semplice, perché le cause sono
gravi e strutturali, ma non credo ci possano essere giustificazioni per
l’inerzia di fronte ad un’ingiustizia così assurda; il lavoro dei bambini è
“invisibile” e meno fragoroso di una bomba ma non per questo meno crudele. La
Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, art.32, dice: “Gli Stati riconoscono il diritto di ogni bambino ad essere protetto
contro lo sfruttamento economico e a non essere costretto ad alcun lavoro che
comporti rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o
di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale,
morale o sociale…”.
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