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LIBRI - Nati due volte: la strada della diversità da percorrere nell’amore

  
di Giorgia CIPELLI

Nati due volte

La scrittura è una rinascita. È uno degli strumenti forse più affascinanti per mettere a nudo la propria coscienza, pentirsi degli errori e ricominciare. La scrittura nasce dal dolore. E Giuseppe Pontiggia, lo scrittore comasco dal volto gioviale e, purtroppo, ormai deceduto, ha affidato alle parole il suo dolore e la sua rinascita in “Nati due volte”, uno dei romanzi forse più intensi dell’autore, vincitore del Premio Campiello 2001 e dal quale è stato recentemente tratto il film “Le chiavi di casa” di Gianni Amelio.

Quant’è bello, leggere questo Pontiggia, le sue pagine dense di disincanto, partecipazione, disperazione, il disarmante e sofferto sfondo autobiografico nella storia del rapporto tra un padre e il figlio disabile. Quant’è bravo questo autore, che proprio perché attingendo da sofferenze e difficoltà personali, riesce a penetrare nel mondo dell’handicap senza cadere nei toni melensi, nei patetismi e nelle false commozioni.

C’è chi, come Paolo, nasce con la tetraparesi spastica distonica. C’è chi nasce sfortunato, insomma. E, per riscattare quella dignità che gli è stata negata per qualche incomprensibile manovra del destino, aspetta il momento della rinascita. C’è chi nasce due volte. La prima, quando esce dal ventre della madre. La seconda, quando finalmente viene riconosciuto prima uomo che disabile.

Questa tematica è l’occasione per Pontiggia, il cui figlio è realmente disabile, per affrontare con lucidità e sincerità la realtà dell’handicap, tanto vicina a noi quanto, spesso, distante, rifiutata e insondabile.

Solitamente la nascita è uno dei momenti di maggiore gioia. Ma non è stato così per il professor Frigerio, il personaggio che narra in prima persona, e per i familiari, quando hanno scoperto che Paolo è nato con problemi verbali e di locomozione. E la nascita è diventata un incubo. Un incubo nel rapporto con i medici, che forniscono alla famiglia diagnosi vaghe e contraddittorie sulle potenzialità del bambino, con il mondo della scuola, un incubo nell’affrontare i piccoli e grandi ostacoli soggettivi e oggettivi che una condizione del genere comporta.

Paolo cammina ondeggiando rasente ai muri e talvolta perde l’equilibrio. Paolo ha difficoltà a parlare e condurre un discorso al telefono diviene per lui un’umiliazione. Paolo non capisce la matematica (e quanti cosiddetti “normali” non la capiscono…) ma a questo viene attribuito un quoziente d’intelligenza inferiore. Paolo è diverso. Con tanti sforzi, giorno dopo giorno, deve riuscire a dimostrare agli altri chi è veramente – un ragazzo, nulla di più o di meno, che chiede agli altri un po’ di fiducia – deve lottare non per diventare normale ma se stesso. Accanto vi sono le figure dei due genitori, con la madre Franca, spesso accondiscendente, e il padre, tante volte esasperato, deluso – soprattutto da se stesso – che cerca nella voce soprannaturale la risposta alle sue disgrazie “Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente” e per i disabili “la fede non è una fuga, ma una conquista”.

E il lettore, quanto ha ancora da imparare da Paolo? Forse tutto. Paolo che fatica a parlare ma spesso lancia poche battute, veritiere e taglienti, che spiazzano gli altri. Paolo che non si commisera, che non si arrende all’amarezza, all’imbarazzo, alla crudeltà del fratello, ma ha il coraggio di esporsi, di mostrarsi vero, autentico e conquistarsi un ruolo. 

Giuseppe Pontiggia ci apre le porte di questo universo a volte con tono duro, esprimendo tutto il dolore e la rassegnazione maturati nel tempo, le speranze che man mano si affievoliscono, la rabbia impotente. Al di là di questo, però, è forte la consapevolezza del genitore di esser rinato accanto a quel figlio diverso: “Altre volte ho provato a chiudere un attimo gli occhi e a riaprirli. Chi è quel ragazzo che cammina oscillando lungo il muro? Lo vedo per la prima volta, è un disabile. Penso a quella che sarebbe stata la mia vita senza di lui. No, non ci riesco. Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra. Una volta, mentre lo guardavo come se lui fosse un altro e io un altro, mi ha salutato. Sorrideva e si è appoggiato contro il muro. È stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo”.

C’è il passo incerto, oscillante di Paolo. C’è il passo di un padre che si adegua all’andatura del figlio, che nonostante tutto sorride alla fragilità. La strada, lunga, è tutta in salita: da percorrere non solo con le gambe, ma anche con coraggio, fiducia, pazienza. Con l’amore. 

 



 

 

 


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