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Iraq: un conflitto senza fine |
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In tutto il mondo, il 15 febbraio 2003, più di cento milioni di
persone scesero nelle piazze delle maggiori città, per sventolare le bandiere
della pace e per affermare il rifiuto della guerra contro l’Iraq e contro tutte
le guerre, esprimendo una secca contrarietà alla tesi americana della guerra
preventiva. Fu una giornata di mobilitazione e
riflessione collettiva, manifestata e partecipata da tanti uomini e donne che,
magari, non erano mai scesi in piazza per manifestare, ma che in quella
giornata intendevano testimoniare con un forte segno di protesta il pericolo di
una guerra ingiusta che veniva dichiarata fuori dall’Onu e dal diritto
internazionale. Ma furono abilmente elusi sia gli
innumerevoli appelli alla pace rivolti da più parti, sia le perplessità
espresse da più componenti l’Assemblea dell’ONU di fronte alle prove
“oppugnabili”, esibite dalla Casa Bianca per ottenere una legittimazione
all’intervento armato già deciso e pianificato. Ancora oggi, in molte città si può osservare come il
vessillo con i colori della pace sventoli su molti palazzi, sui balconi di
molte case costituendo, dopo ben diciotto mesi di conflitto, un simbolo di
speranza per un futuro di pace. Il mondo continua ad assistere ad un conflitto che sembra
non aver fine e che ha generato, fino ad oggi, solo un’azione di guerriglia che
miete quotidianamente decine e decine di morti su tutto il territorio iraqeno,
alimentando la spirale dell’odio nei confronti degli occidentali. I timori, le ansie e le preoccupazioni
di tutto il mondo per le eventuali conseguenze che sono scaturite dal
conflitto, anche dopo aver assaporato una vittoria che, proprio alla luce degli
eventi susseguitisi, ha comportato sì la caduta di un regime dittatoriale ma ha
aperto altre crisi, altri focolai che, forse, nessuna strategia militare e
azione diplomatica riuscirà ad affrontare e spegnere nel breve termine. E così, abbiamo assistito sgomenti
all’attacco terroristico in Spagna, ci siamo fermati increduli nei giorni della
strage alla base di Nassiriya, con la consapevolezza che anche gli italiani da
quel giorno potevano perdere i loro figli nella guerriglia armata, assistiamo
settimana dopo settimana alla barbara uccisione di civili occidentali che, pur
non indossando una divisa e non imbracciando un mitragliatore, pagano con la
vita il solo fatto di essere occidentali anche quando, come nel caso dei
francesi, non sono cittadini di Stati che sono stati a favore dell’intervento
militare. Gli stessi Stati Uniti hanno
dovuto onorare gli oltre mille morti e molte famiglie americane hanno visto
ritornare i propri cari avvolti in una bandiera a stelle e strisce dopo esser
stati chiamati all’arte della guerra per combattere in un conflitto insensato
che non risulta ancora, a tutt’oggi, avvalorato da prove concrete. Le previsioni di portare libertà e
democrazia in un Paese, già messo in ginocchio dalla povertà dopo più di dieci
anni di embargo, sono naufragate in un mare di odio e di terrore
fondamentalistico che ha reso più consapevoli della scelta ingiusta anche
coloro che credevano che quella guerra potesse avere un senso. Oggi, la strada verso la pacificazione di quell’area
sembra ancor più irta di difficoltà che nel passato, mentre i Paesi occidentali
sono più consapevoli di dover vivere con l'incubo degli attentati terroristici.
E se, nel futuro, non dovessero essere attivate efficaci
azioni di politica internazionale, condivise dall’ONU e volte a restituire la
sovranità agli stati occupati, l’area mediorientale non potrà certo godere di
quella libertà e democrazia che gli USA credevano di poter esportare. Perché le
azioni di guerra continueranno ad eccitare il fondamentalismo e a causare solo
azioni di terrore….per cui la spirale dell’odio non avrà mai fine.
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