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Il lungo addio a Mario Luzi
Si è compiuto il suo viaggio poetico verso l'Eterno

  
di Giorgia CIPELLI

La poesia di Luzi è approdata all’Eterno

È il lungo addio ad una poesia che ha scavato nell’animo degli uomini, ne ha rivelato le speranze e le angosce, i problemi civili e quelli esistenziali, ha accompagnato il Novecento in un cammino di scoperta dell’aldilà, del metafisico, dell’Assoluto. È il lungo addio a Mario Luzi, una delle voci più autentiche e apprezzate della poesia italiana del secolo scorso.

Luzi se ne va, a novant’anni, nella sua Firenze, dove, fin da giovane, ha coltivato la passione per le lettere, in un fervore artistico che l’ha portato ad aderire prima al simbolismo e poi all’ermetismo. Finché, al tramonto della sua esistenza, gli è stato conferito il titolo di senatore dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ed è stato ancora Ciampi, con tanti esponenti del mondo politico e personaggi di spicco della cultura, a dargli l’ultimo saluto. Ora, l’Italia si prepara ad aggiungere un altro nome nel glorioso sacrario dei poeti del passato.

Luzi è nato a Firenze nel 1914 e qui, intorno agli anni Trenta, ha frequentato gli ermetici al caffè San Marco e gli affermati letterati legati alla rivista “Solaria” al caffè delle Giubbe Rosse. A 21 anni la sua produzione è già meritevole di pubblicazione: esce “La barca”, raccolta dalla quale emerge lo spirito di tutta la poetica luziana. Nella lirica “Parca-villaggio” esce potente la voce della coscienza umana, la consapevolezza di un destino inesorabilmente filato dalla Parca, finchè, in una dimensione temporale stravolta, l’attimo assume il significato dell’eterno e allora anche la complicata vicenda dell’uomo acquista un senso: “l’eterna compresenza/del tutto nella vita nella morte”. O come in “Copia da Ronsard”: “terra e cielo esultando di quella tua bellezza/la Parca ti recise, cenere ti depose”. La barca del titolo sembra trasportare l’uomo in un viaggio del dolore e del riscatto, dalla foce alle sorgente, dal nulla al tutto, dalla dimensione terrena a quella celeste, dall’illusione alla verità. E’ un viaggio sì del dolore, ma positivo se visto nell’ottica di esperienza perfezionante, che conduce a Dio attraverso la mediazione della Madre, eterna presenza nella vita e nella poesia.

Nell’arco di dieci anni, tra il ‘36 e il ‘46, pubblica “Avvento notturno” e “Un brindisi”: la vena pessimistica si accentua e si leva la denuncia nei confronti del totalitarismo politico e della guerra, la cui unica soluzione è un inno all’amore. Proprio all’amore è dedicato il libro “Quaderno gotico”, un amore che si radica nell’animo, paradossalmente torturandolo e donandogli pace. “L’immagine fedele non serba più colore/e io mi levo, mi libro e mi tormento/a far di me un Mario irraggiungibile/da me stesso, nell’essere incessante/un fuoco che il suo ardore rigenera” scrive in “L’alta, la cupa fiamma ricade su di te”. A questo stato d’animo è congeniale il paesaggio tetro, brullo, sferzato dal vento. L’aspirazione alla serenità, che trova una risposta vera e convinta nella fede, diventa la linea portante della poetica luziana, in “Primizie del deserto”, dove l’ossimoro del titolo richiama sì alla desertificazione della vita, alla condizione arida e solitaria dell’esistenza, ma trova una soluzione in positivo con il dono di sé, la primizia, la generosa apertura verso l’Eterno. Ed è così che nasce “Onore del vero”, con un velato tono inquieto e di attonita constatazione degli anni che passano e di ciò che circonda il poeta: scrive infatti “Si sollevano gli anni alle mie spalle/a sciami” e “E detto questo posso incamminarmi/spedito tra l’eterna compresenza/del tutto nella vita nella morte,/sparire nella polvere o nel fuoco/se il fuoco oltre la fiamma dura ancora” (“Nell’imminenza dei quarant’anni”). Al “Giusto della vita” fa seguito “Dal fondo delle campagne” con un’accorata meditazione cristiana sul dolore scaturito dalla perdita della madre, che trova una risposta nel desiderio di comunione tra i vivi e i morti. Seguono poi numerose altre pubblicazioni: “Nell’opera del mondo”, “Per il battesimo dei nostri frammenti”, “Frasi e incisi di un canto salutare”, “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini” e l’ultimo, “Dottrina dell’estremo principiante”, edito nel ‘94. In tutta la produzione di Luzi emerge l’invito del poeta ad andare oltre la dimensione terrena ma anche a scavare nel tempo dell’umano, una fonte d’ispirazione inesauribile. Anche quando egli scrive “Dove sei? Non ti trovo anima mia” è forte il senso del religioso e di una fede che comunque non è mai assoluta certezza, ma un dubbio continuo. Mario Luzi è un uomo che rimane in attesa, in seconda fila, ed esprime perciò lo stupore esistenziale, il senso del male, del viaggio e della preghiera. Avverte il cambiare dei tempi, eppure in lui l’idea del tempo e dell’eternità sono vicine, si sfiorano. Negli ultimi anni della sua poesia c’è però un cambiamento: non vi è più la centralità del poeta ma l’idea di un poeta che è una fra le molte voci del creato, e quindi anche voce della divinità. Dalla riflessione filosofico-esistenziale di influenza montaliana si passa a una dimensione creaturale. Il poeta da soggetto scrivente diventa, perciò, strumento di Dio e arriva a giustificare pure il male all’interno della provvidenzialità divina, in una poesia di fede che dimostra di essere tutt’altro che straniamento dalla realtà.

Poco prima di morire, Mario Luzi ha scritto la sua ultima poesia, “Il termine”, quasi un presagio, un testamento poetico. Leggendola, diciamo addio al poeta che ha incarnato il gusto della vita e il trionfo dello spirito. Addio al poeta dell’uomo e di Dio.

 

 

 

 


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