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Il lungo addio a Mario Luzi |
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È il lungo addio ad una poesia che ha scavato nell’animo
degli uomini, ne ha rivelato le speranze e le angosce, i problemi civili e
quelli esistenziali, ha accompagnato il Novecento in un cammino di scoperta
dell’aldilà, del metafisico, dell’Assoluto. È il lungo addio a Mario Luzi, una
delle voci più autentiche e apprezzate della poesia italiana del secolo scorso.
Luzi se ne va, a novant’anni,
nella sua Firenze, dove, fin da giovane, ha coltivato la passione per le
lettere, in un fervore artistico che l’ha portato ad aderire prima al
simbolismo e poi all’ermetismo. Finché, al tramonto della sua esistenza, gli è
stato conferito il titolo di senatore dal presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi. Ed è stato ancora Ciampi, con tanti esponenti del mondo
politico e personaggi di spicco della cultura, a dargli l’ultimo saluto. Ora,
l’Italia si prepara ad aggiungere un altro nome nel glorioso sacrario dei poeti
del passato. Luzi è
nato a Firenze nel 1914 e qui, intorno agli anni Trenta, ha frequentato gli
ermetici al caffè San Marco e gli affermati letterati legati alla rivista
“Solaria” al caffè delle Giubbe Rosse. A 21 anni la sua produzione è già
meritevole di pubblicazione: esce “La barca”, raccolta dalla quale emerge lo
spirito di tutta la poetica luziana. Nella lirica “Parca-villaggio” esce
potente la voce della coscienza umana, la consapevolezza di un destino
inesorabilmente filato dalla Parca, finchè, in una dimensione temporale
stravolta, l’attimo assume il significato dell’eterno e allora anche la
complicata vicenda dell’uomo acquista un senso: “l’eterna compresenza/del tutto
nella vita nella morte”. O come in “Copia da Ronsard”: “terra e cielo esultando
di quella tua bellezza/la Parca ti recise, cenere ti depose”. La barca del
titolo sembra trasportare l’uomo in un viaggio del dolore e del riscatto, dalla
foce alle sorgente, dal nulla al tutto, dalla dimensione terrena a quella
celeste, dall’illusione alla verità. E’ un viaggio sì del dolore, ma positivo
se visto nell’ottica di esperienza perfezionante, che conduce a Dio attraverso
la mediazione della Madre, eterna presenza nella vita e nella poesia. Nell’arco di dieci anni, tra il
‘36 e il ‘46, pubblica “Avvento notturno” e “Un brindisi”: la vena pessimistica
si accentua e si leva la denuncia nei confronti del totalitarismo politico e
della guerra, la cui unica soluzione è un inno all’amore. Proprio all’amore è
dedicato il libro “Quaderno gotico”, un amore che si radica nell’animo,
paradossalmente torturandolo e donandogli pace. “L’immagine fedele non serba
più colore/e io mi levo, mi libro e mi tormento/a far di me un Mario
irraggiungibile/da me stesso, nell’essere incessante/un fuoco che il suo ardore
rigenera” scrive in “L’alta, la cupa fiamma ricade su di te”. A questo stato
d’animo è congeniale il paesaggio tetro, brullo, sferzato dal vento.
L’aspirazione alla serenità, che trova una risposta vera e convinta nella fede,
diventa la linea portante della poetica luziana, in “Primizie del deserto”,
dove l’ossimoro del titolo richiama sì alla desertificazione della vita, alla
condizione arida e solitaria dell’esistenza, ma trova una soluzione in positivo
con il dono di sé, la primizia, la generosa apertura verso l’Eterno. Ed è così
che nasce “Onore del vero”, con un velato tono inquieto e di attonita
constatazione degli anni che passano e di ciò che circonda il poeta: scrive
infatti “Si sollevano gli anni alle mie spalle/a sciami” e “E detto questo
posso incamminarmi/spedito tra l’eterna compresenza/del tutto nella vita nella
morte,/sparire nella polvere o nel fuoco/se il fuoco oltre la fiamma dura
ancora” (“Nell’imminenza dei quarant’anni”). Al “Giusto della vita” fa seguito
“Dal fondo delle campagne” con un’accorata meditazione cristiana sul dolore
scaturito dalla perdita della madre, che trova una risposta nel desiderio di
comunione tra i vivi e i morti. Seguono poi numerose altre pubblicazioni:
“Nell’opera del mondo”, “Per il battesimo dei nostri frammenti”, “Frasi e incisi
di un canto salutare”, “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini” e
l’ultimo, “Dottrina dell’estremo principiante”, edito nel ‘94. In tutta la
produzione di Luzi emerge l’invito del poeta ad andare oltre la dimensione
terrena ma anche a scavare nel tempo dell’umano, una fonte d’ispirazione
inesauribile. Anche quando egli scrive “Dove sei? Non ti trovo anima mia” è
forte il senso del religioso e di una fede che comunque non è mai assoluta
certezza, ma un dubbio continuo. Mario Luzi è un uomo che rimane in attesa, in
seconda fila, ed esprime perciò lo stupore esistenziale, il senso del male, del
viaggio e della preghiera. Avverte il cambiare dei tempi, eppure in lui l’idea
del tempo e dell’eternità sono vicine, si sfiorano. Negli ultimi anni della sua
poesia c’è però un cambiamento: non vi è più la centralità del poeta ma l’idea
di un poeta che è una fra le molte voci del creato, e quindi anche voce della
divinità. Dalla riflessione filosofico-esistenziale di influenza montaliana si
passa a una dimensione creaturale. Il poeta da soggetto scrivente diventa,
perciò, strumento di Dio e arriva a giustificare pure il male all’interno della
provvidenzialità divina, in una poesia di fede che dimostra di essere
tutt’altro che straniamento dalla realtà. Poco prima di morire, Mario Luzi ha scritto la sua ultima
poesia, “Il termine”, quasi un presagio, un testamento poetico. Leggendola,
diciamo addio al poeta che ha incarnato il gusto della vita e il trionfo dello
spirito. Addio al poeta dell’uomo e di Dio.
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