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Cassano, sei anni a Bari vecchia

  
di Giuditta SIMONCELLI

Me lo sono immaginato a Bari vecchia, sugli scalini, in calzoni corti

Se dovessimo scegliere l’immagine più significativa di questa avventura italiana agli Europei “Portogallo 2004”, senza dubbio sarebbe un numero.

Quarantanove. Il 49° minuto, per la precisione, del secondo tempo di Italia-Bulgaria. E i cinque a seguirlo. Un tiro al volo da manuale, sotto la traversa bulgara, ricavato da un cross spiovuto da destra. Un ragazzo alla sua prima legittima e titolare maglia azzurra: una sequenza surreale, che scivolava ai nostri occhi increduli, incattivita nell’”eccolo, è arrivato il due a due di Svezia – Danimarca”, scandita pochi istanti prima da Marco Mazzocchi a confermarci l’inevitabile condanna italiana, l’unico risultato che qualsiasi fosse stata la nostra partita, ci avrebbe automaticamente esclusi.

C’è, in quel 49° minuto, ben più che la sola eliminazione italiana: suggerisce tutto il calcio italiano e forse europeo nella sua storia e nelle sue contraddizioni moderne, quell’immagine.

Cassano raggiante, che esplode in una corsa di trionfo e delirio verso la panchina azzurra, e raggela, rattrappendosi in se stesso, invecchiando in una frazione di secondo, in un pianto da bambino inconsolabile, a terra. Ci ha fatto male, quello schiaffo nel calcolo rapido e bruciante, come ci farebbe male vedere un ragazzino malmenato senza motivo: c’era qualcosa di profondamente sbagliato in quel momento, che ben prescinde dall’Europeo in sé.

E, davanti a quella rete bulgara, me lo sono immaginato. Un flash, forse. Un’operazione arbitraria di un romanticismo che oggi, in questo spazio d’investimento che è diventato il parametro calcio, quasi si vergogna di sé, e chiede un timido permesso.

Me lo sono immaginato a Bari Vecchia, sugli scalini, in calzoni corti, i pomeriggi di sole e pioggia, incrociati, agli angoli di una città, là, oltre quella curva del mondo che è il nostro Sud. Si hanno occhi diversi, a nascere oltre quella curva: è la prospettiva dei gradini arroccati sotto il sole che imbianca le case e, troppo spesso, il destino dei figli così come la storia dei padri.

Me lo sono immaginato: con la strada nelle gambe e nella testa, a tirare due calci alla sua prima lattina, negli anni che ha passato in uno slalom feroce tra un domani che pareva marcato, segnato e il dono di un talento, prima che qualcuno, di quella sua Bari e della sua Puglia, lo soprannominasse il gioiellino.

Me lo sono immaginato sdentato, colla maglietta bianca, come la foto che hanno pubblicato di recente, su Controcampo, sorridente, con l’espressione pestifera che non ha perso, da allora. Cassano ce l’ha nel sangue la provocazione, il segno d’un temperamento che nutre la sua grandezza e il suo talento, la cifra d’una fantasia che non si accontenta mai di se stessa ed è quella della sua terra. A quel ragazzino dalla faccia butterata e il caratteraccio stragonfiato da una stampa sempre in cerca di tirate moraleggianti, la vita ha offerto una possibilità, miliardi in tasca, vetrine luccicanti, un mondo artificiale e roboante, che assegna la prima pagina a uno sputo, ma non al pianto irrefrenabile d’un sogno che muore.

Ma in quel ragazzino, e in quel 49° ci sono generazioni e generazioni di quelli che siamo stati, la prima volta che, casualmente, abbiamo fatto un tiro e una passione d’una lattina, sotto le arcate di casa nostra. C’è anche tutto quello per cui quel sogno è iniziato, e senza dubbio rinascerà.

A seguire l’Italia, l’Europa delle Stelle ha calato il sipario su ognuna delle favorite dei pronostici: è scivolata lentamente dietro la mediocrità di un campo d’erba che è e resta la terra di confine tra quello che il calcio dovrebbe restare e quello che non sarà mai. L’erba bagnata non perdona, non si piega alla logica delle vetrine, e degli sponsor, alle convocazioni misurate dall’interesse e dalla politica. Ma il calcio, non si parla, non si bacchetta. Si gioca, e si vive nello spazio di un’emozione. E pretende sei anni nel cuore, stavolta a Bari Vecchia.

Ha raggelato tutti, ha bucato il nostro cinismo e questo strano distacco calcolatore con cui ci siamo ridotti a vivere l'emozione di una passione, ha bruciato questo clima di chiacchiera stampata che raffredda anche solo la bellezza, ogni due anni, di sentirci italiani almeno dietro un pallone. Siamo stati tutti il pianto di Cassano e un addio alla purezza di quella prima lattina giocata tra i piedi, quando qualcosa di più grave di un risultato, gli ha ucciso la convinzione cieca e assoluta di averlo salvato lui, proprio lui, il sogno che probabilmente giocava, senza portafoglio pieno, su quei gradini di Bari, tra le occhiate che i vecchi sulle porte, gli dedicavano, diverse rispetto ai tanti come lui.

Per una notte, il biasimato, pestifero, difficile ragazzo, che forse ha l’unica colpa di essere nato in un Sud lontano dai circuiti privilegiati del calcio politichese che ha perso, ben oltre i confini italiani, questi Europei, è stato una delle più belle e preziose immagini di ciò che questo sport ancora riesce a salvarlo. Nel profondo.

Se c'è stata una vittoria del nostro Calcio, in questa ridicola esibizione da Circo che sta diventando lo sport più bello del mondo è stata in quel quarantonovesimo: perché ci abbiamo visto dentro, nonostante tutto, il perché ce ne siamo innamorati.

 

 

 

 


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