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Olivi e Trappeti nelle campagne Salentine |
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Molti e in diverse maniere
ricordano l’origine dell’ulivo, ma i più si attengono alla mitologia, secondo
cui, essendo sorta una contesa fra Poseidone e Minerva, queste gareggiarono
entrambe per chi avesse fatto dono più utile all’umanità. Minerva, conficcando
la sua lancia nel terreno, fece scaturire un albero dalle foglie strette e
lucenti: l’ulivo. Vinse la gara e sul luogo dove aveva fatto nascere
quest’utilissimo e meraviglioso albero, gli Ateniesi le dedicarono un grande
tempio, l’Eretteo. Ma come mai e in che modo l’uomo imparò a cavar l’olio dai
frutti di questa preziosa pianta? E’ difficile stabilire in che epoca si sia
usata la prima macina verticale, pur tuttavia gli antichi nostri “trappeti”
sono un prodotto di perfezionamento, che man mano si faceva attraverso i
millenni. I Greci usavano il “Τεαπες” e i Romani
usavano il “Trepetum”, simile alla macina rinvenuta durante gli scavi di Stabia
nel 1780. Diretti discendenti di questi trappeti sono le nostre “trappite”, le
quali consistevano prima di tutto in una vasca in pietra per frangere le olive.
Era circolare, nella quale verticalmente girava una gran macina (petra de
trappitu) su di una pista circolare ricavata nella vasca stessa, pista larga
quanto lo spessore della mola, sicché questa, girando, non lasciava mai dello
spazio senza passarvi sopra. Dal centro partiva un’asse saldata ad un
verricello dal quale partiva una stanga più lunga, all’estremità della quale
veniva attaccato un mulo, il quale veniva bendato per non avere il capogiro,
che faceva roteare verricello e macina. Ogni trappeto era munito di due piccoli
torchi (mammaredde) e di uno più grande (lu conzu), collocati in una nicchia
formata da un blocco pesante di pietra (derfinu). All’interno di un canale
circolare, venivano sistemate verticalmente gabbie di giunchi (li fisculi) piene
di pasta d’olive; con una robusta asta di legno si faceva forza su una
panchetta di legno (la chiancola). Il liquido che sgorgava dalla pasta
spremuta, veniva raccolto nel canale circolare del “derfinu” e scorreva in una
pila (ancilu) cilindrica con foro di comunicazione sul fondo con un’altra vasca
(nfiernu). Per travasare l’olio si usava la “sciuanna”, un recipiente di latta,
capace di venti chili d’olio. Una misura usata nel trappeto era la “mina”,
capace di otto chili d’olio; questa mina, dal greco “ημίνα”,
era la metà di uno staio (lu staru). Questi antichi trappeti, sparsi nelle
campagne salentine ricche d’olivi, o locati presso borghi, casali o masserie,
erano sotterranei, scavati nella roccia tenera e di varie dimensioni e forma:
erano delle vere grotte, spesso aventi delle prese d’aria e di luce dalla
volta. Quest’ubicazione pare sia stata dovuta, nel cercare un luogo caldo, per
agevolare il distacco dell’olio. Dei nostri antichi trappeti non resta che il
sotterraneo dove, tutt’intorno la parete, si possono ancora vedere dei “nicchi”
intagliati nel carparo: sono le “sciave”, dove si depositavano le olive, in
attesa che fossero molite. In alcune di queste grotte, si sono trovate ancora
delle pile per deposito d’olio e qualche mola rovesciata sul terreno. Un tempo,
a lavorare nel trappeto, erano circa quattro uomini (li trappitari) ed un
quinto ne era il capo (lu nachiru); essi, novelli primigeni, davano un’immagine
umana nello spirito e nell’essenza, ed una testimonianza della loro saggezza,
della loro perspicacia, della loro cultura, della loro arte. Per quanto possa
rimanere solo un ricordo di questa gente operosa e geniale in tutte le sue
manifestazioni, tuttavia si ha conoscenza di una civiltà rurale ma industriosa
che, nell’essenza genuina della sua manifestazione, dà il senso ed il sapore di
poesia.
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