Cosa fare? I fatti in Iraq,
angosciosi e luttuosi per tutti, impongono questa domanda. Una domanda
sicuramente di non poco conto, se solo si pensa agli equilibri delicatissimi,
che si stabiliscono e si fondono inesorabilmente fra loro, costituiti dalle
ragioni della politica e dalle ragioni, decisamente importanti, dettate dalla
nostra coscienza, dal nostro essere vicini con emozione e trepidazione ai
militari e agli ostaggi civili, e rappresentate soprattutto dalla speranza e
dal desiderio di pace. Una pace che deve intendersi come pace globale e
globalizzante di tutto un territorio, di tutto un mondo culturale e religioso.
Una pace che oggi non è da invocare e da ricercare unicamente per il popolo e
la nazione irachena ma che è e deve essere una pace più ampia che comprenda
anche e soprattutto la risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Una pace
che è oggi osteggiata principalmente da tutto quello stuolo di islamici
fanatici capeggiati da Osama Bin Laden che si è infilato come un cuneo nel
mondo occidentale, nell’Europa, ed è e rimane il principale attore di questa
immane spirale di v
iolenza e terrore. Che fare dunque? Tornare a casa così
semplicemente? Continuare a condannare l’avvio dell’azione militare, della
guerra contro l’Iraq, così senza se e senza ma, per un pensiero di pace tout
court? Sperare ed invocare una guida di forze di pace sotto l’egida dell’ONU?
Condannare e ridimensionare il potere ormai planetario degli Stati Uniti e
bocciare definitivamente il concetto di guerra preventiva che è stato alla base
delle decisioni politiche e militari dell’Amministrazione Bush? Seguire
l’esempio spagnolo ricalcando l’ordine di sciogliere le righe impartito dal
nuovo premier iberico Zapatero ai suoi
militari, anticipando anzi tempo una decisione già ampiamente dichiarata in
campagna elettorale? Continuare questo “patto d’onore” stretto con l’America?
Aspettare ancora il susseguirsi degli eventi pronti ad andarsene quando il caos
sarà al massimo delle sue possibilità e non sarà più in alcun modo dominabile?
Rifondare l’ONU che oggi agli occhi dei più rappresenta una inutile sigla? Tanti dunque gli scenari ipotizzabili e da
più parti ventilati. Cosa fare allora. Una domanda purtroppo non semplice se si
pensa alla situazione odierna in cui vive l’Iraq. Una nazione in preda ad una
paralisi decisionale, ad una paralisi civile, ad una quotidianità vissuta sotto
l’eco della morte, della violenza e dell’insicurezza. Caos al quale si badi
bene noi europei non siamo estranei e non solo per la partecipazione diretta od
indiretta alla guerra. Ma complessivamente per le nostre decisioni troppe volte
antitetiche, per i nostri interessi divergenti, per il nostro guardare troppo
ad un presente prossimo e non alla globalità delle azioni. Un respiro europeo
sempre troppo corto. Ma la verità profonda, e che rappresenta il core
decisionale, è che oggi si affrontano essenzialmente due mondi contrapposti.
Forse inevitabilmente. Il mondo dell’Islam pervaso da un misticismo religioso
che sfocia finanche nel fanatismo ma che fondamentalmente rappresenta ed esalta
quotidianamente, in tutte le sue azioni, la sua identità storica e culturale
secolare. Un mondo che in definitiva che fa della sua religione il vero tessuto
connettivo della società, la sua essenza più intima. Dall’altra il mondo
occidentale, la società europea, la società illuminata che fa della dialettica,
della razionalità e dell’uso della ragione la sua forza. Un mondo in apparenza
forte per economia, sviluppo e tecnologia ma che si è dimostrato improvvisamente
debole e estremamente vulnerabile. Ed infatti la nostra azione politica,
militare e diplomatica ha conosciuto proprio questa debolezza, che si è andata
accentuando ed alimentando proprio nel momento dello scontro più duro e più
alto. Due mondi opposti in cui la certezza e la gioia incredibile dei Kamikaze
islamici non fa altro che accentuare le nostre differenze, i nostri distinguo,
le nostre debolezze, i nostri dubbi sbandierati e pensati come certezze, ed il
nostro orrore eccita le loro azioni. Un mondo occidentale, una società nel suo
complesso, che nel momento di massima allerta ha addirittura pensato di
interrogarsi cercando di ricercare nel
suo interno eventuali colpevolezze, sviste, connivenze, errori diplomatici e
militari. Uno snervante procedere che è l’essenza ultima delle democrazie ma
che si traduce di fatto ed inevitabilmente in un infantile e pernicioso gioco
sulle responsabilità, un meschino esercizio politico. Scenari ben diversi da
quei tavoli in cui gli attentati terroristici vengono pianificati con finissima
e diabolica intelligenza anche per allargare il divario fra le coscienze di noi
occidentali, per preconizzare e determinare le nostre scelte. Due mondi
diversi. Ma che oggi sono di fronte ad un bivio epocale: trovare necessariamente
una conciliazione, un punto di equilibrio per risolvere questo conflitto che
segna il terzo millennio o far esplodere tutte queste contraddizioni in un
conflitto di lunga durata, la cosiddetta guerra di religione, una guerra di
sopravvivenza. Cosa fare allora, cosa sperare? Poche cose ma concrete da cui
partire. Sarebbe facile pensare di ritrovare le ragioni per una Europa
realmente unita che è a fondamento del nostro futuro. Unita negli intenti e
negli sforzi per salvaguardare la nostra identità occidentale, per ridare un
continuum alla nostra storia millenaria. Sarebbe facile chiedere di avere la
forza e la determinazione per guardare ad Israele e alla Palestina con
equilibrio ed equidistanza, risolvendo così quel conflitto e quella ingiustizia
che una delle cause prime della violenza di tutti i giorni e del terrorismo nel
Medio Oriente. Pensare di parlare in
Italia e nella altre nazioni europee un linguaggio comune per non sottovalutare
ancora un pericolo che è tremendamente reale. Sarebbe facile sperare di operare
una politica di bacino del mediterraneo per costituire una cerniera fra popoli
con un identico destino e per spezzare il fronte dell’islamismo. Sarebbero
forse tutte cose opportune e necessarie ma la domanda di fondo purtroppo rimane:
cosa fare?