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Memorie di una ragazza perbene: la rivoluzione dei valori sullo sfondo della Francia d’inizio Novecento

  
di Giorgia Cipelli

Memorie di una ragazza perbene: la rivoluzione dei valori

Potrebbe sembrare la storia di una ragazza qualsiasi: nata in un’agiata famiglia borghese della Francia d’inizio Novecento, una fanciullezza piuttosto serena, poi i primi scontri con la famiglia, le ribellioni, il desiderio d’indipendenza e il primo amore…gli studi alla Sorbona, la convivenza con il compagno e la morte. Lineare e scontata come qualsiasi esistenza. Ma questa non è una storia “qualsiasi”, è la storia di Simone de Beauvoir, scrittrice, amante della filosofia, convinta sostenitrice politica, precursore del movimento femminista, ma prima di tutto una donna che ha saputo restituire un orgoglio da sempre negato alla figura del gentil sesso.

E in tutto questo non vi è un briciolo di pateticità, di esasperazione, di volgarità. La sua non è la contestazione di massa, ma l’affermazione di una parità che si basa sulla dignità del pensiero femminile, la sua non è una battaglia di principio, ma un’esortazione perché la donna impari a conoscere se stessa e le sue potenzialità, staccandosi dai modelli che la cultura ufficiale le impone. Tutto questo appare leggendo con attenzione Memorie di una ragazza perbene, un’autobiografia ricca e particolareggiata, dalla scrittura elegante e pura, in cui la Beauvoir mette a nudo il suo cuore e traduce il passato dell’infanzia e della giovinezza in 370 pagine di inquietudine morale e religiosa, di vita vissuta nelle sue gioie e nelle sue amarezze.

Simone, la piccola borghese ribelle, appare in tutte le contraddizioni del suo carattere: superba e consapevole della vanità degli elogi, socievole e sola, esuberante e triste, religiosa e atea. Insomma, perbene e immorale in molti suoi atteggiamenti piuttosto “sconvenienti” per il tempo.

A partire dall’infanzia e dai primi giochi, su cui incombe una rigida educazione un po’ bigotta e conservatrice, Simone riprende le tappe della sua esistenza, ricca di aneddoti, fino a quella che è forse l’essenzialità del libro: l’inquietudine esistenziale tipica della giovinezza, l’abbandono definitivo della fede, il primo amore nei confronti del cugino Jacques ambiguamente ricambiato. In tutto questo si legge la lacerazione psicologica e fisica della Beauvoir, incerta sul suo destino e ostacolata dai familiari e dalla società per il solo fatto di esser donna (e una donna che è decisa a raggiungere l’indipendenza e l’appagamento personale fuori dal matrimonio).

La solitudine in cui è immersa, fra libri e dubbi, è straziante: “Nonostante le mie amicizie, il mio incerto amore, mi sentivo sempre molto sola; nessuno mi conosceva né mi amava tutt’intera, così com’ero” è dunque il dramma dell’inadeguatezza, l’insicurezza per il fatto di non rientrare negli schemi che la cultura del tempo impone. Ma assieme a questo dissidio interiore vi è anche la chiarezza sulla propria vocazione letteraria “Guadagnare, andare in giro, ricevere, scrivere, esser libera: questa volta la vita si apriva davvero”. Perché i libri toccano il cuore, la mente e il vissuto delle persone. Perché danno all’autore l’appagamento più grande e intimo: aver donato una parte di sé agli altri.

Il richiamo della Beauvoir è a un esistenzialismo autentico, connotato da quella che è una filosofia della libertà, dell’impegno sociale e individuale, entro cui riconoscere il senso della vita, che non viene mai meno, ma va riscoperto, reinventato. Così come l’ambiguità di ogni uomo, il suo sdoppiamento in due diversi modi d’essere e d’agire non vanno risolti ma accettati per la realizzazione più piena dell’individuo stesso.

Etica, moralità e immoralità, senso cupo della religione e un vago accenno alla politica sullo sfondo sono varie sfaccettature con cui si ripresenta la figura di una Beauvoir ormai cresciuta, ma sempre alla ricerca di sé, anche attraverso esperienze da lei considerate “estreme”, fino all’incontro con Jean-Paul Sartre che sancisce un po’ il finale romanzesco del libro.

Giungendo alle ultime pagine, rimane un interrogativo sul titolo, sul perché di quell’aggettivo “perbene”. Il riferimento è forse al perbenismo basato sulla morale sociale borghese da lei disprezzato? O è il “perbene” in tono canzonatorio di una ragazza che ha fatto di tutto per scollarsi di dosso quest’epiteto?

Credo che la Beauvoir abbia voluto dare una diversa sfumatura a questo aggettivo: nessuno può essere definito “perbene” secondo una codificazione morale, proprio come il bene non può esser deciso a priori. Allo stesso modo, la morale, concretamente, non può fornire “istruzioni per l’uso” nella vita.

Perché l’esistenza, a livello effettivo, si sottrae alle classificazioni. Simone de Beauvoir ce lo ha dimostrato con la sua persona, un’autentica figura di donna capace di lottare e di pagare il prezzo delle proprie scelte.

 

 

 


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