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Alla ricerca del corpo perduto |
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La storia del corpo come fatto
sociale è stata a lungo trascurata. Ciò è dipeso tanto dalle componenti
classiche del nostro patrimonio culturale, quanto dalla tradizione giudaico
cristiana che ha proposto una visione dell’uomo in chiave dualistica, cioè come
unione di mente (o anima) e corpo. Entrambe le tradizioni hanno elevato la
mente o l’anima e hanno screditato il corpo. Questa subordinazione gerarchica
del corpo alla mente ha prodotto una degradazione sistematica del corpo: i suoi
appetiti e i suoi desideri sono stati considerati ciechi, anarchici o (in
ambito cristiano) peccaminosi. I profondi mutamenti culturali
dell’ultima generazione (la rivoluzione sessuale, il capitalismo consumistico,
le critiche avanzate dalla “controcultura” degli anni Sessanta e dal femminismo
degli anni Settanta) hanno richiamato l’attenzione sul corpo come fenomeno
sociale non più dipendente da una prospettiva filosofico-religiosa, ma facendo
riferimento ad una lettura del problema in chiave antropologico-scientifica. I metodi attraverso cui
sviluppare la storia del corpo sono ancora oggetto di controversie, tuttavia si
sono ormai evidenziati alcuni settori di grande interesse per lo studio della
storia del corpo: uno di questi è il rapporto corpo-mente. Per approfondire questo tipo di
analisi è importante conoscere il ruolo subordinato che è stato attribuito al
corpo nell’ambito del sistema di valori religiosi, morali e sociali della
cultura tradizionale europea. La mentalità occidentale ha manifestato per
secoli, nei confronti del corpo, un profondo dualismo che ha plasmato
l’espressione linguistica, i metodi di classificazione e l’etica: essere uomo
significava essere un “intelletto incarnato”; la mente, la volontà, la
coscienza o l’io erano i padroni e il corpo era il loro schiavo; o, ancora, il
corpo era la prigione dell’anima. La conseguenza paradossale di
una simile impostazione era che in virtù della sua natura imperfetta, e perfino
bestiale, il corpo poteva essere facilmente assolto (“la debolezza della
carne”). Al contrario, la mente, per la nobiltà della sua natura, aveva
l’obbligo morale di elevarsi al di sopra della pura materialità; pertanto, la
mente che si lasciava coinvolgere appariva più colpevole. Se questo era il rapporto corpo-mente,
con quale criterio, allora, si dovevano dividere i doveri e le responsabilità
fra l’uno e l’altra? Quello che oggi può essere diagnosticato come un disturbo
mentale, nei secoli passati veniva considerato prevalentemente un disturbo di
origine somatica, poteva essere, per esempio, il prodotto di una ferita alla
testa o di un malessere intestinale. Invece, considerarlo un disturbo mentale
significava dover ammettere una possibile forma di possessione demoniaca. Durante i processi alle streghe,
nei secoli XVI e XVII, era fondamentale determinare se i fenomeni di
possessione fossero da ascrivere ad una malattia o a Satana. L’orientamento dei
medici era quello di dare maggiore risalto alle cause organiche del disturbo.
In questo modo veniva concesso un alibi alla volontà, mentre il corpo,
imperfetto e malato, veniva facilmente assolto perché inferiore alla mente. Con la nascita della
psicoterapia si andò diffondendo la certezza che le malattie mentali potessero
essere guarite più in fretta di quelle fisiche. Si manifestò, verso quei
disturbi, un atteggiamento di disponibilità e di comprensione: la società
moderna, creando grandi aspettative e pesanti responsabilità, teneva gli
individui sotto pressione; un alto tenore di vita nelle fasce sociali più agiate
generava uno stato di ansietà. Perciò, in certe circostanze, i disturbi
mentali, o come vennero definiti in seguito, gli esaurimenti nervosi, potevano
ispirare comprensione o addirittura diventare espressione di distinzione
sociale. Dunque, il rapporto mente-corpo
non è un fatto determinato a priori, ma dipende dal contesto culturale. La
differenza esistente tra l’esperienza della malattia nella cultura occidentale
e in quella cinese esemplifica con chiarezza questo relativismo. Quando un
americano si sente “depresso” non consulta il medico, ma lo psicoterapeuta. La
diagnosi è che soffre di un disturbo psichiatrico; la terapia per giungere alla
guarigione è una indagine sulla storia della sua vita. In Cina, una persona nelle
stesse condizioni attribuisce il malessere ad una causa fisica; il medico
conferma che si tratta di una malattia organica (che può essere, per esempio,
la nevrastenia) e gli prescrive una terapia farmacologia. Poiché si considera
vittima di una malattia somatica, il cinese assume il “ruolo del malato” e
pertanto attira comprensione e attenzione. Se avesse ammesso di soffrire di un
disturbo mentale, come il paziente americano, la sua sarebbe stata considerata
una imperdonabile ammissione di debolezza di carattere e di anormalità. Dalla duplice interpretazione
del disturbo mentale, una somatica e l’altra psichiatrica, si comprende come il
corpo, nell’indagine storiografica, debba essere considerato nel contesto dei
valori culturali ed etici presenti in una società. La ripartizione di funzioni
e responsabilità fra il corpo e la mente presenta notevoli differenze a seconda
del secolo, della classe sociale, della cultura e delle circostanze. Quanto
siano importanti queste valutazioni lo dice la storia della colpevolezza
legale: nel passato la punizione era diretta a colpire il corpo tramite pene
corporali o capitali; a partire dal XVIII secolo i riformatori penali
sostennero l’opportunità di non punire il corpo, ma di correggere la mente. I legami tra mente e corpo non
sono meno fondamentali per la storia della medicina e della malattia, come
testimoniano i disturbi “psicosomatici”. La filosofia e le concezioni dell’uomo
si sono fondate di solito su una sottovalutazione metafisica del corpo umano;
in molti rami del sapere il corpo è stato una presenza repressa, ignorata o
dimentica. Recuperare la consapevolezza e la conoscenza del corpo indebolirebbe
la posizione degli “spregiatori del corpo” (come li definì Nietzsche) e
contribuirebbe alla sua riscoperta.
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