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A colloquio con Edoardo Winspeare |
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Sono fermamente convinto che ogni salentino sensibile e
consapevole delle proprie radici culturali debba dire grazie a Edoardo
Winspeare, per aver dato dignità e voce ad una terra che per anni è stata
confinata in spazi ristretti e secondari. Ma anche per aver rivalutato la
“salentinità” come spazio privilegiato di poesia, valori, creatività e
tradizioni. Per questo ho deciso di farmi raccontare il suo percorso in
un’amichevole conversazione. Edoardo, come è nata la tua
passione per il cinema? Da piccolo andavo sempre al
cinema, a Corsano, Morciano, Tricase, Marittima. Nel giro di 10 km c’erano 10
cinema. Guardavo di tutto. Ora un film esce contemporaneamente in tante sale,
ma prima potevi vedere Sergio Leone, i film di karate, Pasolini, Antonioni. È stato naturale, quindi,
scegliere come forma d’arte la regia? Si. Sono un uomo di immagini.
L’immagine emoziona in maniera più diretta rispetto alla scrittura, però, è
anche più banale rispetto alla parola scritta. Lo spettatore è costretto a
subire l’immagine. Noi italiani siamo un popolo di immagini. Gli irlandesi,
invece, scrivono tutti. Come mai tre milioni e mezzo di abitanti hanno prodotto
Joyce, Keats, Wilde, Beckett, Bernard Shaw, mentre noi quattro milioni di
pugliesi niente? Forse è dovuto alla bellezza del nostro paese. Quanto conta il paesaggio
nel tuo linguaggio artistico? Conta a tal punto che io non
faccio solo il regista, ma sono coinvolto nel recupero del paesaggio salentino
(Coppola tisa), uno dei più affascinanti al mondo. Per me non è solo uno
sfondo. Noi siamo il paesaggio. Questa Quali ricordi conservi del
periodo di Monaco? Anni di formazione. Una scuola
molto importante. Ho fatto film con curdi, islandesi, africani, francesi.
Viaggiavo moltissimo, con pochi soldi. Chiedevo a chi girava “Portatemi con
voi, non pagatemi, ma fatemi lavorare e imparare”. Sono stato in Sud America,
Asia, facendo il fonico, l’assistente. Uno sguardo antropologico. Ho iniziato
come documentarista. Ispirazione. La insegui? Ti
viene a cercare? È dentro o fuori di te? È come l’innamoramento, quando
vedi una bellissima ragazza e pensi “la devo conoscere!”. Può essere una bolla
di sapone o un sentimento che va coltivato. Per Sangue vivo ho visto Zimba e mi
sono innamorato (artisticamente-ride). Cosi per il Miracolo. Pizzicata invece è
nato dalla musica. Che criteri usi nella
scelta di un attore? Mi colpisce l’anima. Devono
darmi qualcosa del loro essere. Non voglio che recitino: voglio che siano. La
vita è una mascherata e la mia sfida è capire cosa c’è dietro quella maschera,
cercare la verità, che non è mai quella dichiarata, ma quella rivelata. Dal
modo di comportarsi, dallo sguardo, dai silenzi. A volte l’istinto mi dice “è
lui, nu ssacciu percè”. Che rapporto hai con il
successo? Mi lusinga e mi affatica. Ti fa
subire molte cose e questo a volte è faticoso. Devo dire, però, che i salentini
hanno ancora un certo pudore. E con la critica? Abbastanza buono. I film sono
piaciuti. Quello più criticato in negativo è stato Il Miracolo, perché stava
nelle rete di Venezia: è come aver voluto
“pedalare la bicicletta”. Sei sotto gli occhi di tutti. Ti scrutano,
cercano i difetti. Con che stato d’animo hai
vissuto la tappa di Venezia? Da “lu regista” sono diventato
“il regista”, (non nel senso assoluto). Per molta gente io ero uno che aveva
girato dei filmini sui contadini salentini. Una percezione superficiale, perché
con i miei film ho raccontato storie di gente povera, semplice, ma con grande
dignità. Per me Zimba era Achille. Lamberto (Probo) era Ettore. La stessa
dignità dei due eroi della tragedia greca.
Quanto conta la musica
nella tua vita? Amo la pizzica, Handel,
Beethoven, Mozart, ma anche U2, jazz, musica argentina e andalusa. La musica
popolare in genere è il cordone ombelicale che lega un popolo alla sua terra.
Come i contadini che cantavano “alla stisa”. Musica nata da sofferenze, gioie,
autentiche come l’anima di un popolo o di una persona. Come reagisci alle
pressioni? Con educazione e ironia. Sei molto critico con te
stesso? Devo esserlo. Sei soddisfatto di quanto
fatto finora? Abbastanza. I miei film hanno
molte lacune. Pizzicata è un film poetico, ma con lacune drammaturgiche. Sangue
vivo mancava di spazi. Se potessi tornare indietro
cambieresti qualcosa dei tuoi film? Tutto, anche se lascerei delle
cose. Non cambierei mai Pino Zimba. Sono molto contento della recitazione di
Sangue vivo, de Il miracolo, un film girato molto bene, per quel che so fare io. Come vivi la spiritualità?
Credi in Dio? Si. Mi chiedo sempre cosa è Dio.
Mi confronto con la religione, nella nostra forma cristiana, cattolica. In
tutti i miei film c’è una ricerca spirituale. Io parlo sempre dell’Anima delle
persone, di una loro verità intrinseca, di un nocciolo che esisteva prima della
loro esistenza. Il Miracolo è una ricerca spirituale, della bellezza perché la
spiritualità è una ricerca di pura bellezza, data dallo sguardo di un bambino
che riesce percepirla in una città ferita nella quale nessuno riesce più a
vederla. Cosa ferisce questa
bellezza? Cos’è il male nella società di oggi? Tante cose. La violenza, il
cinismo. Il bambino de Il miracolo è l’antidoto al cinismo, del padre, della
madre, dei media. Che effetto fa realizzare
il proprio sogno? Mi reputo una persona fortunata.
Devo avere lassù qualcuno che mi protegge. Dio, un angelo… Che consiglio daresti a chi
vuole avvicinarsi a questa professione? Di essere tenace, di prepararsi,
di non farsi prendere dallo sconforto, dal cinismo degli altri. Dipende anche
dal tipo di ambizione: se è sincera o solo voglia di successo. Progetti futuri? Sto lavorando ad un film
ambientato in Africa durante la seconda guerra mondiale e ad un altro, da
girare a Lecce.
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