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L’ultima salita del Pirata |
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Ce lo ricorderemo così. Lui e la sua bicicletta. La bandana in
testa, il pizzetto a sottolineare quel volto allungato, quasi da elfo nordico,
le orecchie ingombranti. I muscoli tesi, la schiena incurvata, sul manubrio, le
mascelle tese, contratte e poi liberate nel grido del trionfo, dopo lo sforzo
supremo. Lui, il combattente, lo scalatore d’assalto, quello che mordeva le
salite, come nessuno mai: Marco Pantani, è morto. Lo hanno trovato senza vita, nell’appartamento in cui si era
trasferito da qualche giorno Le Rose di Rimini: un sabato sera, il 14
febbraio. Un arresto cardiaco causato,
dirà l’auto L’unica cosa certa è che Pantani è morto solo, lontano anche dalla
famiglia: i genitori al momento del decesso erano in Grecia e lui s’era
volutamente allontanato da Cesenatico, dalla villa di famiglia, in una
solitudine eremitica. Dimesso, stanco,
cupo, scavato in volto, quasi bruciato da una febbre interiore, che lo
consumava ormai da tempo: così lo ricordano quelli che ne hanno raccolto le
ultime immagini in vita. Irriconoscibile. Eppure questo era lo stesso uomo che
di corse, contro un destino agguerrito, ne aveva vinte ben più di quante la
stampa ne avesse celebrate. Era lo stesso uomo che, adolescente, nel 1986 aveva
vinto il coma, derivato da un gravissimo incidente contro un camion; era lo stesso
uomo che dieci anni dopo, interruppe una carriera avviata in modo più che
promettente [dopo un secondo posto al Giro d’Italia nel 1994, il terzo posto,
subito dopo, al Tour de France e, l’anno successivo, nuovamente un terzo posto
terzo in Colombia, al mondiale] a causa di una frattura di tibia e perone in
uno scontro durante la Milano - Torino.
Era lo stesso uomo che nel 1997 aveva visto un gatto, quasi una beffarda
risata del caso, a sbarrargli la strada per il trionfo. Poi è il 1998, l’anno della storia. O forse della favola, proprio così. Di
quelle che ti raccontano da bambino: un eroe, sfortunato, tante prove
difficili, ma un gran cuore per volare oltre. Era il Cavaliere, Pantani, di una
favola moderna. Così, a cavallo della passione di una vita, egli conquista un
successo epocale. E’ il mondo a parlare di questo buffo uomo e della sua
bandana, dal cuore immenso e dalla grande volontà quando Giro d’Italia e Tour
de France ne faranno per sempre il Pirata: il simbolo di uno sport che, in Italia, rappresenta
un tratto culturale che unisce generazioni. Infiamma gli animi, la gente
impazzisce per lui. In teoria il finale è sempre “e vissero felici e contenti.” Poi
cresci. Non sei un bambino, e la favola si fa cronaca. Amara. Quando scopri che
il finale è un altro. Magari un baratro, insuperabile, che somiglia a una tappa
di un Giro d’Italia. E’ il 5 giugno, quando a Madonna di Campiglio, gli viene
riscontrata un’alterazione del 50 per cento sul tasso d’ematocrito.
L’esclusione dal Giro sarà per Pantani e i suoi tifosi un’ossessione che non li
abbandonerà più. Mentre su tutti i giornali diventa la metafora della malattia
doping che corrompe il ciclismo, Pantani non perde l’amore della gente,
incredula, che è con lui nella vibrante protesta che il campione rivolgerà alle
autorità. Il sostegno e la speranza di coloro a cui ha regalato l’emozione e il
ricongiungimento coi miti di un passato, che ha saputo ridisegnare, sul
rimpianto, mai sopito, della memoria di campioni come Coppi e Bartali, non gli
sono mai mancati. Ma ostile gli è il suo stesso mondo: i colleghi lo accusano,
puntando l’indice della colpevolezza. La stampa asseconda un’eco che gli è
insopportabile. Invidie si confondono a una legittima indagine e il sospetto di
un particolare accanimento su quest’uomo, è più che un dubbio. Mentre
impietosamente il Ciclismo viene travolto dalla coscienza di una sua corruzione
a tutti i livelli di competizione, inutilmente Pantani, che si dichiara vittima
di un sistema, e capro espiatorio di un mondo malato. Ed è ora che la sua
salita si fa insuperabile. Non morde più. Sette procure indagano su di lui. Si
sente un perseguitato. Ogni volta che prova a riavvicinarsi alle piste, la
stampa non perde occasione per ricordare e riproporre la lunga trafila
giudiziaria, affiancata al suo anno d’oro, che diventa quasi un’osservazione di
contorno: Pantani passa dall’essere il simbolo del vincente al rappresentare
l’icona di una crisi profonda di tutto l’ambiente. Una condanna per frode sportiva, una squalifica di sei mesi per
tracce d’insulina in una siringa, ritrovata a Montecatini, nella sua camera.
Non smetterà mai di considerarsi una vittima. E nonostante qualche apparizione,
sul palcoscenico mondiale del Ciclismo, non avrà più davanti più la salita
giusta da mordere. E’ la curva discendente di un mito, che sprofonda in
un’amarezza depressiva, incapace, stavolta di trovare una curva decisiva ed
affrontarla.Non ci interessa in questa sede interrogarci sulle effettive o
presunte responsabilità di un uomo, che indubbiamente ha subito una pressione
mediatica incosciente, in taluni casi. Allo stesso modo non ci sentiamo di
chiudere gli occhi davanti alla consapevolezza che di un sistema sbagliato che
lo ha soffocato, Pantani abbia fatto parte. Il silenzio, rispettoso, davanti alla
sua morte, forse è quello che avrebbe chiesto lui stesso. Un giudizio non fa parte del nostro compito,
che è quello di raccontare una storia, per quella che è, cercando di stabilirne
la verità di fondo. Ci è piaciuto raccontare la storia di un uomo, non di un
supereroe, con la sua forza e la sua debolezza, e forse proprio perché un uomo,
prima che un mito, Pantani è stato per tutti gli Italiani. Quanto alla verità,
ce ne è una, più di tutte le mezze che emergono dalla sua storia, che ci appare
completa, indiscutibile, incancellabile. L’immagine di un uomo, su una
bicicletta, a braccia allargate, sulla linea di un traguardo, libero nella
rosea, luminosa felicità di un trionfo pagato tutta una vita. Fino all’ultimo.
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