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I Conti di Lecce nel Periodo Normanno |
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Nel secolo XI, la presenza del popolo normanno nel
territorio salentino era diventata consistente. Oramai era una realtà come lo
era che i bizantini stavano perdendo via via l’egemonia in queste zone. La
fortuna normanna ebbe inizio grazie alle azioni di Roberto il Guiscardo. Per
suo merito, furono conquistate diverse città geograficamente strategiche, quali
Otranto, Nardò, Taranto e Gallipoli. “Oramai
le imprese normanne erano irreversibili e sconvolgevano il precario assetto
esistente”, scrive Luigi Carducci, storico salentino. “I normanni riportarono sulle terre conquistate un sistema politico del
tutto inedito per il nostro Mezzogiorno, facendo del meridione uno Stato
autonomo”, disciplinato dall’abilità politica di uomini che imposero un
nuovo sistema feudale guidato “dall’assoluta
sovranità del Capo riconosciuto”.
Frattanto,
a Roberto successe Ruggero II, il nipote, il quale divenne Re della Sicilia,
della Calabria e della Puglia. A conquista ultimata, i normanni cercarono di
organizzare il territorio nella maniera più funzionale. Il sovrano divise i
suoi possedimenti in “contee”, circondari amministrativi governati da “conti”.
Tra le più importanti sono da menzionare la Contea di Brindisi, di Nardò, di
Ostuni, di Oria e la contea di Lecce. Quest’ultima era posta nel cuore del
Salento e, dal 1092, fece parlare molto di sé, assumendo un ruolo rilevante
rispetto agli altri distretti.
Il
conte Accardo, successo al padre Goffredo, governò la contea dal 1120 al 1137
istituendo, nel 1133, il Monastero femminile di San Giovanni Evangelista. Alla
sua morte, la contea passò nelle mani del figlio, che salì al potere col nome
di Goffredo III. Questi fece sì che la fama del circondario leccese giungesse a
Palermo, cosicché fra le due città meridionali presto s’instaurarono rapporti
molto stretti. Fu così che Ruggero, il figlio del sovrano siciliano, in una sua
visita a Lecce, conobbe la sorella del conte Goffredo. Dalla relazione tra i
due giovani nacquero Guglielmo, il quale morì prematuramente, e Tancredi,
futuro conte di Lecce. Il legame tra le famiglie si rafforzò e la contea
salentina acquisì nuovi possedimenti in Sicilia (Caltanisetta, Noto) e in
Lucania (Montescaglioso). Tuttavia,
il percorso della storia cambiò bruscamente direzione. Il nuovo sovrano
palermitano, Guglielmo I, detto “il Malo”, non accettò le pressanti
interferenze del conte leccese nel suo governo. Goffredo, infatti, aveva
assunto un atteggiamento irrequieto in seguito alla decisione del re di
accordare favori a un piccolo gruppo emergente dell’alta borghesia marinara
pugliese. Per questa sua ingerenza fu perseguitato dal nuovo sovrano e
imprigionato a Messina. La
motivazione reale di Guglielmo era però un’altra. Egli, difatti, aveva il
timore che il comune nipote Tancredi rivendicasse il suo trono. Approfittando
dell’assenza di Goffredo, “il Malo” marciò sulla Puglia, attaccò Brindisi e
Bari, distruggendole in parte, e si riprese i territori della Lucania e della
Sicilia. Un gesto poco corretto, il suo, soprattutto se pensiamo che Goffredo
si era messo a completa disposizione dei regnanti siciliani, accogliendoli
calorosamente nella propria terra ogni qualvolta avessero avuto il desiderio di
recarvisi soli o con la corte al seguito. Anche
Tancredi fu perseguitato. Messo in carcere ma, poco dopo, liberato in assenza
del re, si rifugiò in oriente dove ebbe modo di confrontarsi con le usanze di
questo mondo così affascinante. Studiò algebra e astronomia e divenne un uomo
intellettualmente molto preparato. Dopo
la morte dello zio Guglielmo, al quale successe Guglielmo II, detto “il Buono”,
Tancredi poté ritornare a Lecce dove, nel 1169, assunse ufficialmente il titolo
di conte. Qualche anno più tardi, per lo stretto legame di parentela con il
sovrano palermitano, venne nominato Gran Connestabile e Giustiziere di Puglia e
di Terra di Lavoro. Tancredi
fu un vero toccasana per la contea leccese. Nel ventennio della sua reggenza
organizzò una vasta opera di restaurazione della città, incrementò l’economia,
agevolò il commercio oltre il circondario, allacciando rapporti con la
Repubblica di Venezia, e agevolò un’azione di ripopolamento del centro
cittadino. Ma il suo sguardo si volse anche al di là delle mura leccesi. Egli,
infatti, affidò le sue terre a circa quaranta baroni rurali. A costoro, scelti
tra i suoi vassalli e tra ex militi, diede il compito di bonificare le paludi e
riorganizzare le attività agricole, con lo scopo di popolare tali acquitrini. E
così fu. Da questa iniziativa sorsero Sternatia, Zollino e Seclì. “Il capolavoro a cui rimane legato il nome
Tancredi fu la fondazione del Monastero dei SS. Niccolò e Cataldo”, ci dice
il Carducci. Donato ai Benedettini, il convento fu inaugurato nel 1180. Frattanto,
Guglielmo II morì senza figli e Tancredi acquisì la corona siciliana in qualità
di nipote. La sua reggenza, durata solo quattro anni, dal 1190 al 1194, fu
tutt’altro che tranquilla. Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa,
rivendicò il trono in qualità di marito di Costanza d’Altavilla, zia di
Tancredi. La forza militare tedesca permise ad Enrico di impossessarsi del
trono siciliano ai danni del conte leccese, il quale, “gettata la spugna”,
dovette ritornare nella sua terra. L’epoca
dei normanni nel Salento era giunta al suo epilogo. E, anche se questo popolo
aveva creato nel Sud una politica salda fondata “da un lato sull’istituzione delle contee, e attraverso esse del Regnum
unico e indiviso, e dall’altro sul consenso delle genti che volevano
dimenticare presto le turbinose vicissitudini subite in tanti secoli”
(L.C.), doveva farsi da parte per lasciare il posto ad una nuova epoca.
Un’altra dinastia, quella degli Svevi, faceva capolino nel Mezzogiorno
d’Italia. Ma questa è un’altra storia…
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