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Carmelo Bene, la poesia di un palcoscenico |
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Si definiva, con quell’ironia provocatoria, sarcastica che gli era
innata, “un classico di vita”.
Carmelo Bene. E’ morto una sera di marzo, quasi un anno fa, nella sua casa di
Roma. Era malato da tempo, ma un silenzio discreto circondava le sue
condizioni. Chè, pur frequentando la dimensione pubblica attraverso mediatiche
apparizioni, Bene non ne fu mai un ingranaggio ma un ospite distaccato: si è
detto di lui che “indossava la sua persona” senza mostrarla mai. Un’anima
profonda, nutrita dalla drammatica coscienza del suo tempo, analizzata
prospetticamente nei riflessi di impoverimento dell’arte, cui la sua vita,
principalmente, si dedicò: il teatro.
La morte di
un’artista è sempre un colpo che mai ci si aspetta, ma quando avviene, si
materializza nell’immaginario comune in un doloroso rispetto, così denso da
sembrare vuoto, sordo, pesante, che misura una distanza ormai definitiva. Con
Carmelo Bene si è chiusa una grande pagina della cultura italiana, ammesso che
sia possibile chiudere quel senso eterno che una mente profonda e
rivoluzionaria si guadagna quando conquista e fonda un nuovo spazio
significativo all’arte: così. Geniale. Unico nella sua capacità inerpretativa.
Polivalente. Carmelo Bene, l’antipatico, il disincantato. Una perdita
incolmabile del teatro italiano.
Leccese, di Campi
Salentina, fu, fin da giovane, una personalità spiccata, forte, intransigente e
spigolosa. Ammesso all’Accademia d’Arte Drammatica l’abbandonò per divergenze
ideologiche. Qualche anno dopo, alterna Camus a performance e rIvoluzionarie,
nelle cantine romane, conquistando una critica difficile che lo ribattezza l’enfant terrible: tra i molti aspetti
di indagine e sperimentalismo che caratterizzano la sua intera carriera c’è la
continua ricerca di un equilibrio tra grande tradizione e la rivisitazione
originale e sperimentale dei classici, attraverso la sua forte, carismatica
personalità, che li apre a nuove prospettive interpretative: da Amleto a Majakovskij;
da Pinocchio, al teatro di Antonin Artaud, Carmelo Bene costruisce un teatro di
immagini e sensazioni, senza grande spazio a una logica che il suo tempo non
concede più. La solitudine e la drammaticità dell’uomo del suo tempo, è
affidata, rappresentativamente, a due elementi straordinari: la sua voce, e la
netta demarcazione tra il suo attore e il pubblico. Il suo è un teatro di visioni dell’attore offerte al pubblico
ma non ai fini di una condivisione, quanto ai fini di uno “svelamento” parziale
di chi le offre, che senza la sua disposizione non sarebbe, comunque possibile.
Al pubblico non è data l’interpretazione, ma solo l’ascolto, dello spettacolo.
Lontani, incapaci di illudersi di reciproca comprensione, artista e amante
dell’arte di cui l’attore non è più tramite, ma custode inviolabile:
l’incomunicabilità dell’intimo, se affidata a meccaniche orali, è una
sottolineatura continua e coerente del messaggio teatrale di Carmelo Bene. Il
suo spettatore deve “sentire” la propria “non
presenza” riflessa in quella dell’attore, che all’interno dello spazio
scenico crea sempre una dialettica di sparizione e comparsa. Bene attraversa
tre fasi di realizzazione tecnica: una di formazione, acquisizione, nella quale
tende all’espressione tradizionale dei testi, una che potremmo definire di passaggio, quando diviene “regista di se stesso”, manipolando e
stravolgendo classici immortali. Infine la terza fase, in cui si affida a una
nuova declamazione, amplificata da microfoni e diffusori. Il teatro del “tono e del sussurro”, della sfumatura
tonale, diviene possibile in un’interpretazione nuova del “dire” il teatro: ma
attraverso la tecnica che l’attualità gli consente, Bene canta temi
universalmente umani, e antichi.
Alla lunga via
del teatro egli affiancherà il cinema: un cinema fatto di bianco e silenzi, che
si riallaccia all’intima aspirazione di rappresentare sempre e comunque l’unità
di base di tutto il suo teatro: il suono, la voce. Perché è alla modulazione
del suono che è affidata la capacità di dire il non essere, che in tutta la sua carriera, questo fiero, orgoglioso,
graffiante leccese identificò come la costante del suo tempo.
Carmelo Bene,
della sua terra, ha mantenuto tutta la vita l’aspra sincerità, un senso di
sospensione e distanza, di un’atemporalità dell’essere, ricavandone
quell’intomo carattere lirico di fondo del suo teatro: ha donato alle scene la
profondità di una poesia teatrale,
che spesso, nei suoi spettacoli, lo ha condotto a parlare un linguaggio che
ricorda quello del non essere montaliano.
“Quando sono uscito non avrei saputo dire
cosa quei testi dicevano. Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene
pronuncia un parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo
non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, si, ma
nella forma aerea di una sparizione. senti il frullare delle ali, ma l'uccello
non lo vedi: volato via. così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. E
allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè
che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare, e che se alla fine
tu sai volgere in prosa una poesia allora hai sbagliato tutto, e, a dirla
tutta, la poesia esiste solo quando diventa suono, e dunque quando la pronunci
a voce alta, perché se la leggi solo con gli occhi non è nulla, è prosa un po'
vaga che va a capo prima della fine della riga ed è scritta bene, ma poesia non
è, è un'altra cosa.” Ci sembra calzante immagine, bellissima, la
definizione del genio profondo di quest’uomo e della sua opera che Alessandro
Baricco ne ha dato. Perché è in quest’opera che egli, che si definiva classico di se stesso, ha trovato
un’essenza inconfondibile e che non si perde, nella morte, tanto quanto, in
vita, sembrava volesse sfuggirsi, tra un sipario calato, e una luce chiusa a
giro stretto, sulla sua figura indimenticabile.
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