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Il kosovo, la Russia e l'Unione Europea |
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Il Kosovo è uno Stato
indipendente. La proclamazione dell’indipendenza, promessa da mesi, si è
realizzata domenica 17 febbraio, provocando subito manifestazioni di giubilo
nelle strade di Pristina (capitale dello Stato nascente), rabbia nelle strade e
nei piani alti del potere di Belgrado e infine paura nei vertici
dell’autoritarismo sovietico. La Russia gioca un ruolo importantissimo
nell’equilibrio balcanico, diventato ancora più importante ora che lo sbarco
della NATO a Danzica e negli Stati Baltici ha messo in pericolo l’atavica
influenza russa al di qua della cortina di ferro. Tra l’Ottocento e il Novecento
l’impero zarista costruì in Serbia un suo avamposto balcanico, con l’obiettivo
di ottenere per Belgrado, e per la flotta sovietica, uno sbocco sul mare
Adriatico. Le cose non andarono tanto bene per Mosca. Adesso l’appoggio russo ha
matrici diverse. Un aspetto da non sottovalutare è la questione dell’indipendenza
in sé. L’indipendenza unilaterale del Kosovo riapre a livello europeo e
mondiale il problema dell’indipendenza delle minoranze, e se i leghisti padani
non fanno paura, ben diversa è la situazione dei baschi spagnoli o dei
separatisti ceceni e dell’area georgiana, o ancora dei separatisti ciprioti,
che nell’evento kosovaro potrebbero trovare
un precedente non di poco conto per avanzare in maniera ufficiale le
loro annose richieste. E poi l’immediato riconoscimento statunitense del Kosovo
indipendente dimostra come la strategia mitteleuropea di Bush va avanti, e
tende sempre più ad accerchiare Mosca, isolandola. Vladimir Putin ha definito
l’indipendenza kosovara un “atto immorale e contrario al diritto”. E mentre
sulla Piazza Rossa tornano a sfilare le parate militari di memoria storica, il
presidente continua a criticare l’Occidente per la mancata ratifica dei
trattati sul disarmo convenzionale e minaccia la costruzione di postazioni
missilistiche rivolte verso l’Ucraina e la Polonia, non appena all’interno dei
loro confini verranno costruite basi militari occidentali e statunitensi. Nel giorno del novantesimo
anniversario della fondazione dell’Armata Rossa, un migliaio di russi ha
manifestato contro l’indipendenza del Kosovo e l’aggressione della NATO. Un
consigliere di Putin ha affermato che il Kosovo è un’arma carica pronta a
sparare, mentre il candidato presidente del Partito Comunista ha paragonato gli
Stati Uniti e la NATO alla Germania nazista. Gli Stati Uniti, in seguito ai
disordini a Belgrado dei giorni scorsi, avevano chiesto alla Serbia di adottare
tutte le misure necessarie per garantire la tutela degli stranieri presenti sul
suo territorio. Il ministro serbo per il Kosovo ha risposto accusando proprio
gli Stati Uniti dei disordini successi dal 17 febbraio in poi: secondo
Samardziic “la radice della violenza risiede nella violazione del diritto
internazionale” perpetrata con l’indipendenza del Kosovo e con la sottrazione
di una parte del territorio serbo. Le parole del ministro serbo
sono in parte condivisibili: la dichiarazione di indipendenza del Kosovo e
l’immediato riconoscimento degli stati occidentali, rappresenta una parziale
violazione del diritto internazionale e di quanto previsto dalla Carta delle
Nazioni Unite. Ma è pur vero che dal 1999, da quando cioè le armate serbe sono
state costrette dalla NATO a porre fine alle violenze contro la minoranza
albanese kosovara, il Kosovo è di fatto un’entità indipendente. La posizione russa nella
controversia ha oltrepassato il limite dal buon senso anche con le parole
dell’ambasciatore russo a Washington presso la NATO, il quale ha minacciato il
ricorso alle armi qualora Europa e Stati Uniti non rispettino le decisioni
dell’ONU e qualora la NATO infranga il proprio mandato nel Kosovo. Toni concitati ed eccessivi, ma
che dipingono il quadro preciso della situazione. Una moderazione delle
posizioni in campo è quanto mai indispensabile per non far scoppiare nuovamente
la polveriera balcanica. Un altro rischio da non
sottovalutare è la reazione del movimento nazionalista serbo, il quale sembra
sopito e addormentato da poco meno di un decennio. Ma attenzione alle
apparenze. Il fuoco all’ambasciata a stelle e strisce di Belgrado è la prova
che gli animi sono già abbastanza surriscaldati. E intanto come reagisce l’Unione
Europea? Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno immediatamente
riconosciuto il Kosovo, contrarie si sono dichiarate Spagna, Grecia, Bulgaria,
Romania, Cipro e Slovacchia. Le contromisure serbe sono state
quelle immediate di congelare i rapporti diplomatici con i Paesi che hanno
riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, attraverso il ritiro degli
ambasciatori. L’UE non ha fallito nel
presentarsi polarizzata su due posizioni antitetiche sulla questione
dell’indipendenza kosovara, ma, per dirla con Bill Emmot, nell’avere poca
pazienza, perseveranza e lungimiranza nell’affrontare la questione:
l’indipendenza kosovara doveva passare attraverso il convincimento di Belgrado
ad accettare tale indipendenza. Dopo il mancato raggiungimento dei risultati
sperati all’interno dei negoziati dei mesi scorsi, mettere la Serbia di fronte
al fatto compiuto ha rappresentato un piccolo fallimento del “potere morbido” e
non vincolante dell’UE: influenzare gli Stati attraverso la promessa di accordi
commerciali, aiuti finanziari e infine con l’ingresso nell’Unione. Va proseguita e rafforzata,
invece, la missione europea che prevede l’invio di 1800 effettivi (funzionari
di polizia, amministrativi e magistrati) che lavoreranno alla ricostruzione del
Kosovo al fianco dei 17.000 uomini della NATO. La presidenza slovena dell’UE
può essere il leit motiv attraverso
il quale diffondere i propositi europei nei Balcani. La crisi kosovara potrebbe
essere risolta con l’ingresso contestuale di Serbia e Kosovo nell’Unione
Europea. Questa mossa non dovrà essere un sotterfugio per nascondere le
briciole sotto il tappeto: l’ingresso dei due Stati nell’UE dovrebbe essere il
risultato di un lungo processo che
dovrà portare la Serbia ad accettare l’indipendenza kosovara e a superare i
contrasti serbo-kosovari nell’ambito di una comunità europea che aiuterebbe lo
sviluppo, e non solo economico, di entrambi i contendenti.
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