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Malessere diffuso
  
di Francesco CACCETTA

Malessere diffuso

C’è poco da stare allegri. Basta guardarsi attorno, raccogliere le notizie che dalle pagine della cronaca, dai media in generale, dal portale on line della vita di tutti i giorni, rimbalzano con smodata velocità da un capo all’altro della nostra penisola ed entrano nelle nostre case con una ripetitività, una percussione, davvero impressionante.

Una sequenza infinita, quasi un rincorrersi senza sosta. Non passa giorno che dalle grandi città, dai piccoli centri urbani, dai grandi agglomerati, dalle regioni ricche come da quelle con più stridenti problemi sociali ed economici, non giungano notizie di crimini, di violenze, di emarginazione, di uccisioni. Atti criminosi per motivi quasi per lo più banali ma sempre più efferati nella loro dinamica e nella loro esecuzione. Momenti di disagio, di vera e propria incomunicabilità, momenti di inaudita e a volte inutile violenza. Non passa giorno che il livello di contrasto politico non superi quello del giorno prima. Un contrasto profondo, una contrapposizione costante, un continuo distinguo, un incessante botta e risposta che avviene ormai quotidianamente attraverso i siti, i dispacci d’agenzia, i giornali, i talk show, la televisione.

Un insulto quotidiano, un disprezzo che supera abbondantemente la singola parola, il singolo e semplice concetto, senza mai trovare momenti di unità, quasi un bisogno di riaffermare sempre una appartenenza, per perpetrare la distanza, per continuare a rinfacciarsi le colpe ed i misfatti di ogni ordine e genere. Un’Italia profondamente divisa. È così che si respira un clima che non può in alcun modo risultare positivo fin troppo carico come è dell’ambiguità della politica di questi momenti, delle sue inquietudini, dei suoi anatemi, dei suoi equilibrismi. Si annaspa fra il sensazionalismo, si naviga a vista contando sulla galanteria del tempo e sulla fortuna in generale. Per intanto un malessere diffuso continua a montare in maniera non del tutto sorprendente. E ciò che è accaduto in queste ultime settimane è sicuramente indicativo di tutto ciò. A partire allora dalla tragica uccisione, a Catania, dell’Ispettore di Polizia Filippo Raciti, caduto in una banale serata che doveva essere di sport, di svago, di socializzazione, di puro e semplice divertimento. Morto per mani di ragazzi, di piccoli uomini cresciuti troppo in fretta con la rabbia e la ribellione che dà forza alle loro giovani energie. Una ribellione, un disagio che trasforma lo spazio antistante lo stadio in una palestra di delirio. Spranghe, sassi, corpi contundenti della più svariata provenienza che menano le danze spaventosamente fino a chiudere l’esistenza di un uomo lì per dovere, lì per lavoro. Ragazzi trasformatisi improvvisamente in una forza collettiva di violenza cieca ed ottusa, quasi tarantolati dall’ebbrezza dello scontro, della ribellione tout court. Ragazzi apparentemente normali, superficialmente normali, a partire dalle loro famiglie, dalle loro storie, ma che evidentemente portano dentro di sé il delirio dell’insoddisfazione, della violenza come risposta, dell’odio stupido e momentaneo, della goliardia da eccitazione collettiva e da sballo di fine serata, della bravata e della presenza come archetipo di vita.

Ma per continuare in questa disagevole sequela vi sono anche i ragazzi che, ancora nell’hinterland di Catania, muoiono per futili motivi, per un graffio ad una macchina. Altri ragazzi che, sempre in Sicilia, rapiscono ed uccidono un imprenditore per ricatto, per cercare dei facili soldi, per soddisfare qualche capriccio, per inseguire qualche sogno, per risultare forse più grandi e interrompere così il corso della loro giovinezza, con un morto sulla coscienza. Così con la semplicità desunta forse dai film, dalle tante e troppe particolareggiate fiction. Ossessioni e momenti di pura follia che provengono anche dal Nord con notizie di vite stroncate per risibili motivi da vicini di casa che non sopportano l’altro, che non sopportano la presenza di animali, che non tollerano più nulla, che rispondono alla realtà esterna con un odio covato dentro nel silenzio, con una distorsione periodica dello stato di vigilanza. Momenti di disagio che lasciano trasparire ciò che oggi alberga in molte case, in tanti quartieri, in tante piccole comunità, apparentemente normali. E su tutte la tragedia di Erba con la follia che furiosa si è abbattuta ad opera di gente, superficialmente normale, di quelle che forse incontriamo tutti i giorni accanto a noi nel cammino della vita, durante il lavoro, nei momenti di svago. Senza conoscere i mostri che vengono ospitati ed alimentati quotidianamente.

Ma è anche di questi ultimissimi giorni il ritorno alle cronache delle Brigate Rosse, il ritorno del  terrorismo con i suoi organici, i suoi programmi, le sue cellule, le sue pianificazioni. Armamentari di guerra, piani strategici, uomini nel mirino, risoluzioni strategiche e soprattutto ragazzi, donne, uomini che emergono improvvisamente dalla loro normalità confusi nelle scuole, nelle università, nel sindacato, nelle fabbriche, nei comunissimi posti di lavoro. Storie segrete cui risponde la delusione, la paura, il pianto di tanti familiari oggi storditi per tanta notorietà. Un salto indietro che ricostruisce purtroppo in un solo momento i tanti lutti, le tante vittime, le farneticanti allocuzioni politiche, i tanti programmi eversivi che sembrano non conoscere fine. E l’Italia torna così ad interrogarsi su di un filo che non è stato mai reciso e su quel bisogno di rivoluzione che ancora evidentemente persiste inalterato nelle sue ragioni e nelle sue cause.

 

 

 


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