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Malessere diffuso |
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C’è poco da stare allegri. Basta
guardarsi attorno, raccogliere le notizie che dalle pagine della cronaca, dai
media in generale, dal portale on line della vita di tutti i giorni, rimbalzano
con smodata velocità da un capo all’altro della nostra penisola ed entrano
nelle nostre case con una ripetitività, una percussione, davvero
impressionante. Una sequenza infinita, quasi un
rincorrersi senza sosta. Non passa giorno che dalle grandi città, dai piccoli
centri urbani, dai grandi agglomerati, dalle regioni ricche come da quelle con
più stridenti problemi sociali ed economici, non giungano notizie di crimini,
di violenze, di emarginazione, di uccisioni. Atti criminosi per motivi quasi
per lo più banali ma sempre più efferati nella loro dinamica e nella loro
esecuzione. Momenti di disagio, di vera e propria incomunicabilità, momenti di
inaudita e a volte inutile violenza. Non passa giorno che il livello di
contrasto politico non superi quello del giorno prima. Un contrasto profondo,
una contrapposizione costante, un continuo distinguo, un incessante botta e
risposta che avviene ormai quotidianamente attraverso i siti, i dispacci
d’agenzia, i giornali, i talk show, la televisione. Un insulto quotidiano, un
disprezzo che supera abbondantemente la singola parola, il singolo e semplice
concetto, senza mai trovare momenti di unità, quasi un bisogno di riaffermare
sempre una appartenenza, per perpetrare la distanza, per continuare a
rinfacciarsi le colpe ed i misfatti di ogni ordine e genere. Un’Italia
profondamente divisa. È così che si respira un clima che non può in alcun modo
risultare positivo fin troppo carico come è dell’ambiguità della politica di
questi momenti, delle sue inquietudini, dei suoi anatemi, dei suoi
equilibrismi. Si annaspa fra il sensazionalismo, si naviga a vista contando
sulla galanteria del tempo e sulla fortuna in generale. Per intanto un
malessere diffuso continua a montare in maniera non del tutto sorprendente. E
ciò che è accaduto in queste ultime settimane è sicuramente indicativo di tutto
ciò. A partire allora dalla tragica uccisione, a Catania, dell’Ispettore di
Polizia Filippo Raciti, caduto in una banale serata che doveva essere di sport,
di svago, di socializzazione, di puro e semplice divertimento. Morto per mani
di ragazzi, di piccoli uomini cresciuti troppo in fretta con la rabbia e la
ribellione che dà forza alle loro giovani energie. Una ribellione, un disagio
che trasforma lo spazio antistante lo stadio in una palestra di delirio.
Spranghe, sassi, corpi contundenti della più svariata provenienza che menano le
danze spaventosamente fino a chiudere l’esistenza di un uomo lì per dovere, lì
per lavoro. Ragazzi trasformatisi improvvisamente in una forza collettiva di
violenza cieca ed ottusa, quasi tarantolati dall’ebbrezza dello scontro, della
ribellione tout court. Ragazzi apparentemente normali, superficialmente
normali, a partire dalle loro famiglie, dalle loro storie, ma che evidentemente
portano dentro di sé il delirio dell’insoddisfazione, della violenza come
risposta, dell’odio stupido e momentaneo, della goliardia da eccitazione
collettiva e da sballo di fine serata, della bravata e della presenza come
archetipo di vita. Ma per continuare in questa
disagevole sequela vi sono anche i ragazzi che, ancora nell’hinterland di
Catania, muoiono per futili motivi, per un graffio ad una macchina. Altri
ragazzi che, sempre in Sicilia, rapiscono ed uccidono un imprenditore per
ricatto, per cercare dei facili soldi, per soddisfare qualche capriccio, per
inseguire qualche sogno, per risultare forse più grandi e interrompere così il
corso della loro giovinezza, con un morto sulla coscienza. Così con la
semplicità desunta forse dai film, dalle tante e troppe particolareggiate
fiction. Ossessioni e momenti di pura follia che provengono anche dal Nord con
notizie di vite stroncate per risibili motivi da vicini di casa che non
sopportano l’altro, che non sopportano la presenza di animali, che non
tollerano più nulla, che rispondono alla realtà esterna con un odio covato
dentro nel silenzio, con una distorsione periodica dello stato di vigilanza.
Momenti di disagio che lasciano trasparire ciò che oggi alberga in molte case,
in tanti quartieri, in tante piccole comunità, apparentemente normali. E su
tutte la tragedia di Erba con la follia che furiosa si è abbattuta ad opera di
gente, superficialmente normale, di quelle che forse incontriamo tutti i giorni
accanto a noi nel cammino della vita, durante il lavoro, nei momenti di svago.
Senza conoscere i mostri che vengono ospitati ed alimentati quotidianamente. Ma è anche di questi ultimissimi
giorni il ritorno alle cronache delle Brigate Rosse, il ritorno del terrorismo con i suoi organici, i suoi
programmi, le sue cellule, le sue pianificazioni. Armamentari di guerra, piani
strategici, uomini nel mirino, risoluzioni strategiche e soprattutto ragazzi,
donne, uomini che emergono improvvisamente dalla loro normalità confusi nelle
scuole, nelle università, nel sindacato, nelle fabbriche, nei comunissimi posti
di lavoro. Storie segrete cui risponde la delusione, la paura, il pianto di
tanti familiari oggi storditi per tanta notorietà. Un salto indietro che
ricostruisce purtroppo in un solo momento i tanti lutti, le tante vittime, le
farneticanti allocuzioni politiche, i tanti programmi eversivi che sembrano non
conoscere fine. E l’Italia torna così ad interrogarsi su di un filo che non è
stato mai reciso e su quel bisogno di rivoluzione che ancora evidentemente
persiste inalterato nelle sue ragioni e nelle sue cause.
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