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Scialoja, tra forma e colore |
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A partire dal 1983, dopo un
periodo (tra gli anni Settanta e il primo avvio degli Ottanta) di crisi e di
scarsa operosità, le opere di Toti Scialoja (Roma 1914 – 1998) raggiungono
decisamente, rispetto alla precedente produzione, una più compiuta maturità e
una maggiore potenza espressiva; partito da una serie di esperienze che era
andato sviluppando fin dai lontani anni Trenta, allontanandosi gradualmente da
quella figurazione del periodo della sua formazione, a contatto con
l’espressionismo della Scuola Romana, prima con la fase neocubista
dell’immediato dopoguerra, e poi, dai primi anni Cinquanta, sviluppando una
pittura astratto-concreta vicina all’espressionismo astratto americano,
proseguita via via con continui ed interessanti aggiornamenti, l’artista (che
fu anche, scenografo, fine poeta, docente e poi a lungo direttore
dell’Accademia di Belle Arti della capitale, dove ebbe come allievi, tra gli
altri, Kounellis, Pino Pascali, Giosetta Fioroni e Mario Ceroli) giunge ad
elaborare un personalissimo linguaggio che, con irragiungibile padronanza del
mezzo pittorico, tocca una sua cifra particolare ed estremamente originale. La sua propensione artistica si
manifestò assai precocemente; incoraggiato da Cagli, che aveva conosciuto alla
Galleria della Cometa, Sialoja, già nel 1939, vide accettato un suo disegno
dalla giuria della Quadruiennale romana, ma il suo esordio vero e proprio
sarebbe stato sancito l’anno successivo, quando espone trenta disegni alla
Galleria Genova del capoluogo ligure. Nel dopoguerra, con Ciarrocchi, Sadun e
Stradone fa parte del gruppo dei “quattro artisti fuori strada” presentato da
Cesare Brandi alla Galleria del Secolo di Roma nel marzo del 1947. A un
decennio dopo si deve l’elaborazione da parte sua della peculiare tecnica dello “stampaggio”, con la quale dà anima
e figura alle “impronte”, ritenuta una delle forme maggiori dell’arte astratta
a livello europeo. Ma è dopo questa stagione creativa che il suo segno, che
sembra soprattutto nel corso dei Settanta come rinchiudersi entro un freddo e
rigido geometrismo, avverte prepotentemente l’urgenza di “sconfinare”, di
uscire da questi schemi per assaporare e riscoprire una nuova libertà espressiva,
in cui, supportato anche da nuova esplosione inventiva in campo letterario e
poetico, possa esprimersi nella ricerca di nuove ed inesplorate combinazioni
estetiche, con risultati di forte impatto comunicativo ed emotivo. Quest’ultimo periodo della
produzione di Scialoja, in cui si identifica la fase più matura della sua lunga
vicenda creativa, è oggetto di considerazione in una splendida mostra a Verona
presso la Galleria dello Scudo e la Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti;
curata da Rolf Lauter, Direttore della Stadtische Kunsthalle Mannheim, e da
Marco Vallora, l’esposizione (“Toti Scialoja. Opere 1983 – 1997) è accompagnata
da un poderoso catalogo edito con la ben nota cura da Skira, il quale, oltre a
documentare, con ampiezza di riferimenti iconografici, l’evoluzione di uno
stile che acquista negli anni sempre maggior dinamismo, offre un’ampia
ricognizione anche sull’attività letteraria dell’autore e pubblica un
epistolario, a cura di Laura Lorenzoni, in gran parte inedito da cui emerge la fitta
ed intensa rete di relazioni che l’artista romano intrattenne, specie nel
periodo considerato dalla mostra, con il mondo culturale europeo e d’oltre
oceano. Il percorso espositivo, fin dai
dipinti Secondo San Isidro, Diario Rosso Ocra, Butte e Crimea, rivela la
decisa svolta cromatica di Sialoja, il quale, abbandonate le velature, torna ad
impiegare le terre ora suggestivamente bilanciate dai grigi; scelte sul colore
che si ampliano, nella produzione legata al suo soggiorno a Gibellina, dove
tenne un laboratorio di pittura (1985; due anni dopo l’esperienza venne
ripercorsa da un bel libro pubblicato dalle Edizioni della Cometa con testi di
Giuseppe Appella e Giorgio Manganelli), in gamme cromatiche che vanno dai
celesti chiari agli arancioni, da varie tonalità e gradazioni del rosso a
bianchi luminosissimi. Se con Taraia
(del 1992), realizzato per la XII Quadriennale romana egli raggiunge una sorta
di apoteosi espressiva, in Baccanale,
dello stesso anno, rispolvera cromie che rievocano l’antica scuola pittorica
ferrarese. Nei lavori successivi, forme ora fluide, ora rigidamente scandite,
come fa notare Lauter, danno “libero svolgimento alla coniugazione delle
componenti strutturali e formali, quali il ritmo e l’equilibrio, l’armonia e la
consonanza, l’espansione e la contrazione, l’unità e la molteplicità, la
superficie e lo spazio”; la pittura dell’ultimo Scialoja tende ad una sorta di
equilibrio tra colore e forma, e, come ci dice ancora Lauter, “approda a una
rappresentazione esteticamente allusiva alla globalità del mondo, che si
configura come una dirompente congerie di colori e di forme indefinite, tali da
suscitare nello spettatore forti reazioni emotive. Ne consegue che, in effetti,
Scialoja è stato un artista che si è servito della pittura per dipingere la
natura, ma non già la natura visibile, bensì le sue potenzialità narrative e le
sue inesprimibili bellezze”.
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