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La morte non è uguale per tutti
  
di Annalisa GROSSI

BIOGRAFIA

In India c’è un muro che neanche l’impressionante forza devastatrice dello tsunami è riuscita ad abbattere: è quello che divide la popolazione in caste, ufficialmente smantellato dalla costituzione repubblicana del 1950 ma tuttora responsabile di una presenza ingombrante nella vita sociale del Paese. Seppure parecchio indebolito rispetto al passato, il sistema delle caste conserva infatti notevole importanza nel subcontinente indiano, soprattutto tra le persone meno istruite e dunque più ciecamente attaccate ai dogmi della tradizione religiosa. E se normalmente queste forme endogene di discriminazione non perdono occasione di confermare la propria influenza sul vivere quotidiano della gente, l’India degli ultimi giorni ci svela che esse riescono ad attecchire indisturbate anche all’ombra del lutto.

Sta succedendo in alcuni campi di soccorso messi su dalle organizzazioni umanitarie nelle zone colpite dal maremoto del 26 dicembre scorso. Le comunità di pescatori che forniscono manodopera locale alla macchina degli aiuti internazionali si rifiutano di consegnare biscotti e latte in polvere agli “intoccabili”, vietano loro di bere dalle taniche d’acqua dell’Unicef, di accedere ai templi durante la distribuzione del riso e di utilizzare i bagni a cielo aperto. Governo e autorità locali non intervengono, temendo forse tensioni sociali assolutamente indesiderate in un momento di crisi, o riconoscendo quasi l’impossibilità di tenere a bada credenze e pregiudizi radicati nella cultura popolare da millenni.

Secondo la tradizione induista, la società indiana si basa sulla divisione in quattro gruppi principale detti varna (letteralmente significa “colore”), che derivano dalle diverse parti del corpo di Brahma: dalla testa i brahmani (sacerdoti e intellettuali), dalle braccia gli kshatriya (soldati e amministratori), dalle cosce i vaisya (artigiani e commercianti) e dai piedi i sudra (braccianti e servi). Poi c’è una quinta categoria di indiani senza casta, i dalit (“oppressi, calpestati”), che nonostante furono rinominati harijan (“figli di dio”) dal Mahatma Gandhi sono oggi più comunemente noti come intoccabili, a causa della presunta impurità delle loro occupazioni tradizionali, come spazzare per strada, pulire le latrine, trattare gli animali morti. La costituzione Indiana, entrata in vigore tre anni dopo l’indipendenza, ha abolito l’intoccabilità; in teoria le caste sono state bandite ed è stata sancita l’uguaglianza tra tutti i cittadini. Di fatto, però, i dalit sono tuttora gruppi ai margini della società, ritenuti così impuri da non poter essere toccati da persone appartenenti a caste superiori, e continuamente vittime di discriminazione e sfruttamento.

Nello stato del Tamil Nadu, dove vivono oltre tre milioni di “intoccabili”, centinaia di cadaveri “impuri” sono rimasti giorni e giorni a marcire sulle spiagge, fino a quando gli stessi dalit non si sono occupati di seppellirli nelle fosse comuni, facendo attenzione a non mischiarli con gli altri corpi senza vita.

“ ‘A morte ‘o ssaje ched’è…è una livella”, scrisse Totò in una nota poesia. È vero: lo tsunami nel sud–est asiatico ha travolto tutti, non ha fatto distinzioni tra ricchi e poveri, uomini e donne, indigeni e turisti, maharajah e senza casta. Sono ancora una volta gli uomini, anche nella tragedia, a costruire muri con i pesanti mattoni del pregiudizio.

 

 

 


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