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Scipione a Villa Torlonia |
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La “Scuola romana di Via Cavour” (come
ebbe a battezzarla Roberto Longhi in occasione della prima Sindacale del 1929),
nata due anni prima dall’incontro di Scipione, Mario Mafai e Antonietta Raphael
Mafai, a cui si aggiunse più tardi il pittore e scultore Marino Mazzacurati, ha
rappresentato in Italia l’episodio antinovecentista di maggior forza
espressiva; il termine “scuola” è certamente improprio, in quanto i tre
“fondatori”, pur accomunati dalle tematiche e dall’immediatezza della loro
pittura, che esprimeva il forte dissenso nei confronti dei formalismi
linguistici del Novecento, ammantati di naturalismo e di classicismo, non
svilupparono un programma comune e svolsero la loro arte secondo accenti
diversi e personalissimi. Tra i tre, Scipione (nome scelto da Gino Bonichi,
nato a Macerata nel 1904 e morto ad Arco nel Trentino non ancora trentenne, per
sottolineare la sua “romanità” di elezione), giunto giovanissimo nella
capitale, visse una stagione creativa intensissima, segnata contemporaneamente
dalla tubercolosi e da uno straordinario “slancio vitale”, a ridosso della sua
morte prematura. La sua vasta informazione storica, da
Raffaello al Seicento romano, dà originale sostanza alle sue composizioni,
“barocche” sul piano della trama pittorica, di una “violenza” espressionista
che può ricordare Soutine, e anche sul piano più propriamente iconografico, per
la stupefacente ed imprevedibile “spericolatezza” degli accostamenti. Si è ben
lontani, come si intuisce, dalle composte stilizzazioni del Novecento: basti
soffermarsi, lungo il percorso della bella mostra in corso al Casino dei
Principi di Villa Torlonia a Roma, che così si “sdebita” con lui dopo oltre
mezzo secolo dalla prima retrospettiva che Palma Bucarelli gli dedicò alla
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, davanti al Cardinale Decano (1929-30), in cui la figura, che evoca una forza
misteriosa ed oscura, domina sul fondo nero della cupola e dei simboli papali;
oppure davanti al Risveglio della bionda
sirena (pare ispirato da un sogno della Raphael), dipinto nello stesso
periodo, in cui il simbolo sembra invece capovolgersi e la bella creatura del
mito si trasforma in un laido mostro attorniato da perverse allusioni. Scipione, a Roma fin dall’età di cinque
anni, conobbe Mafai nel 1924, e fu con lui allievo alla scuola libera di nudo
all’Accademia di Belle Arti; nella Biblioteca di Palazzo Venezia si appassionò
alla pittura di El Greco, Goya, Tintoretto, alla cultura barocca,
all’espressionismo contemporaneo di Ensor e Grosz. Già l’anno dopo, alle
Gallerie Bragaglia e Doria espose i suoi primi lavori, che si collocavano
ancora nel clima del “realismo magico”, sebbene già tradiscano un’accentuazione
simbolica ed una sorta di “forzatura” dei soggetti in cui si intravedono già i
successivi sviluppi. Che furono immediati, intensi e sorprendenti quanto breve
fu la sua attività artistica; il biennio 1929-30 fu il più – smaniosamente –
produttivo di una figurazione, densamente soffusa da una “dominante” cromatica
direttamente percepita dai tramonti e dai palazzi romani, cui faceva da
costante sfondo la città cattolica dei papi e della controriforma, avvertita
nel suo inesorabile disfacimento, come “raccontano” opere fondamentali, che
insieme si possono ammirare al Casino dei Principi, come La cortigiana romana, Piazza
Navona, e Gli uomini che si voltano
(questi ultimi due provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna). Sono
opere (insieme alle tre bellissime prestate dalla Fondazione Cassa di Risparmio
di Macerata – Museo Palazzo Ricci, La
Piovra, Ritratto di ragazza, e Scena Apocalittica) in cui “esplode” la
grandezza, ma anche l’inquietudine di Scipione, cui si deve una “svolta”
decisiva nella pittura italiana moderna, con l’inattesa scoperta di un
espressionismo visionario, carico di umori romantici e “carnali”, che ebbe una
forte carica di rottura e di innovazione nei confronti della stantia cultura
italiana del tempo, come si evince anche dai suoi emozionanti ritratti (ede
autoritratti) e dalla raffinata sensualità dei suoi disegni, connotati da un
tratto moderno e fantastico. Osservando le altre opere
esposte in mostra sembra emergere una continua tensione, una ricerca spasmodica
di modi sempre nuovi di esprimersi; l’artista maceratese, tra i più complessi
ed originali protagonisti della cultura europea tra le due guerre, ha
interpretato Roma non solo nei suoi luoghi più emblematici, ma soprattutto nei
simboli del potere: la chiesa, la
religiosità, la decadenza sono i temi di molti suoi quadri dai segni concisi e
fiammeggianti, raccontati nella luce densa ed inquietante (estremamente
simbolica ed allusiva) del tramonto. Ma Scipione ritrae soprattutto,
ossessivamente, i rappresentanti di quel potere che domina nell’animo stesso
della città. Ritroviamo in questa esposizione romana, curata da Netta
Vespignani e Claudia Terenzi (ottimo il catalogo realizzato da Palombi
Editori), anche dipinti fortemente simbolici, che hanno fatto parlare di
espressionismo nei tratti e nelle materie, come le immagini deformate di Uomini che si voltano (1930) e di Caino e Abele (1932). Il 9 novembre del 1933 Scipione si spegne nel suo letto del
sanatorio di Arco; dieci giorni dopo i suoi amici più cari lo ricorderanno su
“L’Italia Letteraria”, con un commosso editoriale di Enrico Falqui e con
ricordi di Mafai e di Goffredo Bellonci. Due anni dopo, nell’ambito della
Seconda Quadriennale romana, per volere di Cipriano Efisio Oppo e contro lo
stesso statuto della rassegna che prevedeva la partecipazione solo di artisti
viventi, verrà ordinata una sala di ventuno dipinti e trenta disegni
dell’artista così presto sottratto dal destino alla scena artistica italiana ed
internazionale.
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