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Scipione a Villa Torlonia
Dal 1954 è la prima personale a Roma del “profeta di via Cavour

  
di Michele DE LUCA

Dal 1954 è la prima personale a Roma del “profeta di via Cavour”

     La “Scuola romana di Via Cavour” (come ebbe a battezzarla Roberto Longhi in occasione della prima Sindacale del 1929), nata due anni prima dall’incontro di Scipione, Mario Mafai e Antonietta Raphael Mafai, a cui si aggiunse più tardi il pittore e scultore Marino Mazzacurati, ha rappresentato in Italia l’episodio antinovecentista di maggior forza espressiva; il termine “scuola” è certamente improprio, in quanto i tre “fondatori”, pur accomunati dalle tematiche e dall’immediatezza della loro pittura, che esprimeva il forte dissenso nei confronti dei formalismi linguistici del Novecento, ammantati di naturalismo e di classicismo, non svilupparono un programma comune e svolsero la loro arte secondo accenti diversi e personalissimi. Tra i tre, Scipione (nome scelto da Gino Bonichi, nato a Macerata nel 1904 e morto ad Arco nel Trentino non ancora trentenne, per sottolineare la sua “romanità” di elezione), giunto giovanissimo nella capitale, visse una stagione creativa intensissima, segnata contemporaneamente dalla tubercolosi e da uno straordinario “slancio vitale”, a ridosso della sua morte prematura.

     La sua vasta informazione storica, da Raffaello al Seicento romano, dà originale sostanza alle sue composizioni, “barocche” sul piano della trama pittorica, di una “violenza” espressionista che può ricordare Soutine, e anche sul piano più propriamente iconografico, per la stupefacente ed imprevedibile “spericolatezza” degli accostamenti. Si è ben lontani, come si intuisce, dalle composte stilizzazioni del Novecento: basti soffermarsi, lungo il percorso della bella mostra in corso al Casino dei Principi di Villa Torlonia a Roma, che così si “sdebita” con lui dopo oltre mezzo secolo dalla prima retrospettiva che Palma Bucarelli gli dedicò alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, davanti al Cardinale Decano (1929-30), in cui la figura, che evoca una forza misteriosa ed oscura, domina sul fondo nero della cupola e dei simboli papali; oppure davanti al Risveglio della bionda sirena (pare ispirato da un sogno della Raphael), dipinto nello stesso periodo, in cui il simbolo sembra invece capovolgersi e la bella creatura del mito si trasforma in un laido mostro attorniato da perverse allusioni.

     Scipione, a Roma fin dall’età di cinque anni, conobbe Mafai nel 1924, e fu con lui allievo alla scuola libera di nudo all’Accademia di Belle Arti; nella Biblioteca di Palazzo Venezia si appassionò alla pittura di El Greco, Goya, Tintoretto, alla cultura barocca, all’espressionismo contemporaneo di Ensor e Grosz. Già l’anno dopo, alle Gallerie Bragaglia e Doria espose i suoi primi lavori, che si collocavano ancora nel clima del “realismo magico”, sebbene già tradiscano un’accentuazione simbolica ed una sorta di “forzatura” dei soggetti in cui si intravedono già i successivi sviluppi. Che furono immediati, intensi e sorprendenti quanto breve fu la sua attività artistica; il biennio 1929-30 fu il più – smaniosamente – produttivo di una figurazione, densamente soffusa da una “dominante” cromatica direttamente percepita dai tramonti e dai palazzi romani, cui faceva da costante sfondo la città cattolica dei papi e della controriforma, avvertita nel suo inesorabile disfacimento, come “raccontano” opere fondamentali, che insieme si possono ammirare al Casino dei Principi, come La cortigiana romana, Piazza Navona, e Gli uomini che si voltano (questi ultimi due provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna). Sono opere (insieme alle tre bellissime prestate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata – Museo Palazzo Ricci, La Piovra, Ritratto di ragazza, e Scena Apocalittica) in cui “esplode” la grandezza, ma anche l’inquietudine di Scipione, cui si deve una “svolta” decisiva nella pittura italiana moderna, con l’inattesa scoperta di un espressionismo visionario, carico di umori romantici e “carnali”, che ebbe una forte carica di rottura e di innovazione nei confronti della stantia cultura italiana del tempo, come si evince anche dai suoi emozionanti ritratti (ede autoritratti) e dalla raffinata sensualità dei suoi disegni, connotati da un tratto moderno e fantastico.

     Osservando le altre opere esposte in mostra sembra emergere una continua tensione, una ricerca spasmodica di modi sempre nuovi di esprimersi; l’artista maceratese, tra i più complessi ed originali protagonisti della cultura europea tra le due guerre, ha interpretato Roma non solo nei suoi luoghi più emblematici, ma soprattutto nei simboli del potere: la chiesa, la religiosità, la decadenza sono i temi di molti suoi quadri dai segni concisi e fiammeggianti, raccontati nella luce densa ed inquietante (estremamente simbolica ed allusiva) del tramonto. Ma Scipione ritrae soprattutto, ossessivamente, i rappresentanti di quel potere che domina nell’animo stesso della città. Ritroviamo in questa esposizione romana, curata da Netta Vespignani e Claudia Terenzi (ottimo il catalogo realizzato da Palombi Editori), anche dipinti fortemente simbolici, che hanno fatto parlare di espressionismo nei tratti e nelle materie, come le immagini deformate di Uomini che si voltano (1930) e di Caino e Abele (1932).

     Il 9 novembre del 1933 Scipione si spegne nel suo letto del sanatorio di Arco; dieci giorni dopo i suoi amici più cari lo ricorderanno su “L’Italia Letteraria”, con un commosso editoriale di Enrico Falqui e con ricordi di Mafai e di Goffredo Bellonci. Due anni dopo, nell’ambito della Seconda Quadriennale romana, per volere di Cipriano Efisio Oppo e contro lo stesso statuto della rassegna che prevedeva la partecipazione solo di artisti viventi, verrà ordinata una sala di ventuno dipinti e trenta disegni dell’artista così presto sottratto dal destino alla scena artistica italiana ed internazionale.

 

 

 


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