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Il Ca.LIBRO/ "La strada" di McCarthy |
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La strada (Einaudi 2007, euro
16,80) è l’ultimo romanzo (vincitore del premio Pulitzer 2007) di Cormac
McCarthy, uno scrittore americano (nato a Rhode Island nel 1933, cresciuto nel
Tennessee e vivente in Texas) che ha una lunga carriera alle spalle. Tra le sue
opere citiamo Il guardiano del frutteto,
Figlio di Dio, Meridiano di sangue, La
trilogia della frontiera (che comprende 3 romanzi: Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura), Non è
un paese per vecchi (divenuto un film), tutti tradotti in italiano e
pubblicati in Italia da Einaudi. Il nuovo romanzo si colloca nel ricco filone
utopico-distopico della letteratura anglosassone che parte da Utopia (1516) di Tommaso Moro (dal greco
“ou” e “topòs”, cioè non luogo, luogo inesistente, oppure “eu” e “topos”, luogo
buono, migliore di quello reale), alla Nuova
Atlantide (1626) di Francesco Bacone, a Robinson
Crusoe (1719) di De Foe, ai Viaggi di
Gulliver (1722) di Jonathan Swift, ad Erewhon
(1872) (inversione di “Nowhere”, da nessuna parte) di Samuel Butler, News from Nowhere (1891) (Notizie da
nessun luogo) di William Morris, ai romanzi fantascientifici come Frankenstein o il Moderno Prometeo
(1818) di Mary Shelley o La macchina del
tempo (1895), L’uomo invisibile
(1897), La guerra dei mondi (1898), Il primo uomo sulla luna (1901), Una moderna utopia (1905) tutti di
Herbert George Wells, che segnarono il passaggio definitivo dal filone utopico
(quindi dal sogno di un mondo migliore) a quello distopico (o della utopia
negativa e quindi all’incubo di una società peggiore) con capolavori come Il Nuovo Mondo (1932) di Aldous Huxley, La fattoria degli animali (1945) e 1984 (1948) di George Orwell, Robot (1950) di Isaac Asimov che apre la
strada al romanzo-cibernetico, le Cronache
Marziane (1950) e Farenheit 451
(1953) di Ray Bradbury, Il signore delle
Mosche (1954) di William Golding, Entropy
(1960) di Thomas Pynchon, ecc. Il libro di McCarthy ha due protagonisti, un padre
ed un figlio che, con un carrello della spesa, attraversano gli Stati Uniti
(dal gelido nord “verso sud”) alla ricerca di altri esseri sopravvissuti alla
distruzione del mondo a seguito di un evento catastrofico provocato dall’uomo. Il paesaggio è incenerito, tutti i segni della
“civiltà” scomparsa sono distrutti ed immobilizzati al momento dell’Apocalisse.
La strada che percorrono è un mare nero di asfalto
fuso, è una strada piena di ostacoli materiali e morali, è un cammino senza
meta, un’odissea, su una striscia di asfalto tra resti di cemento e ceneri
della natura. Padre e figlio, sopravvissuti, sono come due
naufraghi su una zattera sperduta in un oceano deserto alla ricerca di un’isola
su cui, post-moderni Robinson, ricostruire la loro società. Sono costretti ad
affrontare i pericoli del quotidiano, perennemente alla ricerca di cibo su una
Terra che non produce più nulla, assediati dalla paura della solitudine ma
anche delle cattive compagnie. Nel loro viaggio incontrano, infatti, altri
sopravvissuti che, seguendo gli istinti della legge della sopravvivenza e della legge del più forte, cercano di
sottrarre loro il cibo o si abbandonano al cannibalismo, e loro due hanno solo
una pistola con pochi proiettili per difendersi (ma altri avranno archi e
frecce simboli del ritorno al mondo tribale), con la certezza di essere dalla
parte giusta. “Siamo ancora noi i buoni?”
chiede il bambino ed il padre risponde: “Si.
Siamo ancora noi i buoni.” E non c’è bisogno di altre parole, di
spiegazioni. Questo viaggio agli inferi è angosciante e tenero
al tempo stesso, con un padre che tenta in tutti i modi di proteggere il figlio
perché istintivamente vede in lui una speranza per un nuovo futuro, ed un
figlio pieno di paure che si affida fiducioso al padre cui però non nasconde le
proprie paure. La narrazione procede per paragrafi brevi, quasi
come appunti di diario, a volte sembrano poesie in prosa intercalati da
dialoghi asciutti, quasi monotoni, quelli tra un uomo ed un bambino. Non c'è’
il gusto della parola (“parola” al “femminile”), ma la comunicazione essenziale,
quasi telegrafica, tra due maschi (“il verbo” al “maschile”) che si capiscono
con poche parole e non c'è’ bisogno di effusioni e tenerezze verbali.
L’affetto, il fortissimo legame d’amore tra i due, si coglie proprio nei loro
gesti semplici ed istintivi, pratici e concreti, ma anche nei silenzi
strazianti e nelle loro parole essenziali ma ancor più dense di significati,
che a volte rasentano la poesia. L’uomo e il bambino sono la metafora della
sterilità maschile nel momento in cui la madre terra distrutta è diventata
anch’essa sterile ed i personaggi femminili non esistono se non nel ricordo (la
madre del bambino morta). Ma il padre ha dato al figlio una certezza: “noi portiamo il fuoco”, elemento
primordiale, prometeico, degli albori dell’umanità. Qui il fuoco rappresenta la
volontà di ricominciare da capo, dal fuoco primigenio, per creare una nuova
società sulle ceneri di quella nostra società implosa, fallita ed
autodistrutta. In questa elegia in prosa di McCarthy, in questo
viaggio in un deserto d’umanità, un barlume di speranza torna grazie
all’incontro con una “famiglia”, con maschi e femmine, e quindi alla
possibilità di ritrovare la fertilità perduta.
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