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Sul fronte di guerra
  
di Maddalena MONGIO'

Ufficiale riservista del corpo militare della CRI dal ’94 quando ero a Bologna

La macchina militare che sembrava destinata a girare con il motore al minimo, pigia il piede sull’acceleratore e si impegna ad affrontare il percorso accidentato del Libano. Per chi vive più o meno tranquillo, più o meno stressato dalla quotidianità, la percezione della guerra è rarefatta. Certo ci si commuove allorquando, malauguratamente, tornano in patria bare avvolte nel tricolore; ci si commuove allorquando lo strazio dei parenti è impietosamente esibito dalla voyeuristica telecamera di turno; ci si indigna per i diritti violati, ma infine è tutto lontano, molto lontano. Siamo al centro dello scenario di guerra pigiando un tasto del telecomando, siamo lontani ripigiandolo. Allora bisogna farsela raccontare una missione, bisogna farsela raccontare da chi c’è stato in una terra tormentata. Stelio Alvino è uno dei tanti leccesi che tornano nel Salento per le vacanze, è uno dei tanti leccesi che sono andati altrove per realizzarsi nella professione. Anestesista degli Ospedali Riuniti della Val di Chiana a Montepulciano; ufficiale riservista del corpo militare della CRI dal ’94, quando era a Bologna per frequentare la facoltà di Medicina. Dal ’03 ha partecipato con la CRI alla missione Antica Babilonia in Iraq.

Quando è arrivato in Iraq la prima volta?

Nel settembre ’03. L’ospedale era già stato costruito dal turno precedente partito in giugno. Ci sono rimasto sino a novembre, sono rientrato dieci giorni prima dell’attentato ai carabinieri. Sono ritornato nel febbraio ’04. Una terza volta da settembre a novembre ’04, ma distaccato negli Emirati Arabi dove c’è il centro di smistamento dei feriti che arrivano dall’Iraq e dall’Afghanistan. L’ultima missione l’ho fatta quest’anno dal 13 febbraio al 2 maggio.

Quanto dura un turno?

Variano da un minimo di 45 ad un massimo di 60 giorni, non di più. Le Forze Armate, che lo fanno professionalmente, hanno missioni che durano quattro mesi. Ero di missione quando c’è stato l’ultimo attentato ai carabinieri.

Che cosa ha provato? Che cosa si prova a vivere giorno per giorno con la paura di poter morire?

Era la prima volta che mi trovavo a dover affrontare le conseguenze di un attentato. Quel giorno ero impegnato in un altro servizio sanitario, destinato ai civili iracheni, siamo stati richiamati via radio a un rapido rientro. Sin dalla mia prima missione notai che le preoccupazioni ti angosciano di più prima della partenza, ma non quando sei lì. Quando arrivi non provi più paura, forse perché entrando a contatto con l’ambiente cominci a sentirlo tuo. È un meccanismo comune a tutti noi e se a qualcuno dovesse capitare di non sentirsi così è bene farlo rientrare perché potrebbe contagiare gli altri.

Qual è la molla interiore che spinge un uomo a mettere a repentaglio la propria vita?

Mah… potrei dire che faccio il medico, che ho voglia di fare del bene agli altri, ma sarebbe troppo riduttivo. In realtà ci sono motivazioni psicologiche più profonde: che cosa sono capace di fare; mi voglio mettere alla prova anche in situazioni estreme e voglio vedere dove sono capace di arrivare. Credo che dietro a tutto il volontariato ci siano queste dinamiche. Non so se il volontario è il più altruista o il più egocentrico.

Ci racconta cosa è accaduto nell’ultimo attentato ai carabinieri di stanza a Nassirya?

La notizia dell’attentato è arrivata per radio e comunque le colonne militare sono monitorate con apparecchiature sofisticatissime che rendono possibile il controllo anche visivo. Al momento dell’attentato al blindato sono morti tre militari, di cui uno rumeno.

Ovviamente ci sono procedure prefissate…

Certo. Il primo mezzo che arriva sul luogo dell’attentato dà il cosiddetto METHANE, una sigla Nato. Sostanzialmente è un elenco di istruzioni per fornire alla base informazioni sul luogo, sul tipo di attentato, su eventuali pericoli, sul numero di feriti. Una volta fornito il METHANE parte tutta la struttura necessaria per i soccorsi. Se viene dato il “Major Incident” entra in azione la CRI che ha i mezzi per arrivare sul posto e, dopo che l’area dell’incidente è stata bonificata, in pochi minuti allestire un ospedale pneumatico per stabilizzare sul posto i pazienti. A quel punto si fa la scelta su chi può essere salvato.

Cioè?

La medicina delle catastrofi, che deriva dall’attività militare, ha delle linee guida e dei protocolli internazionali molto precisi e obbliga a una scelta tra il ferito che non ce la farà e quello che ha lesioni recuperabili. Impegnare su un ferito, che è andato in arresto cardiaco, due tre  persone nel tentativo di rianimarlo, significa trascurare chi potrebbe sopravvivere.

Con che stato d’animo si fa una scelta di questo tipo?

Con uno stato d’animo che è esattamente il contrario di quello che ci muove in ambito civile. Nella normale attività professionale viene dato a tutti l’aiuto e l’appoggio per il trasporto in ospedale, in situazioni estreme, quando la richiesta di intervento è superiore alla possibilità di fornirlo, la scelta di priorità è un obbligo. Può accadere anche in ambito civile, se si verifica una grande catastrofe.

Ovviamente bisogna agire senza alcun tipo di coinvolgimento…

Assolutamente nessuno.

Dopo cosa rimane?

Dopo c’è sicuramente il bisogno di parlare di quanto è accaduto. Quindi si fa un “The Briefing” per valutare come sono andate le cose,  eliminare eventuali buchi neri e fornire supporto psicologico. In questi anni si sta sviluppando una psicologia delle catastrofi proprio per dare sostegno a chi subisce questi eventi o a chi dovendo intervenire è costretto a scelte difficili.             

A quali esigenze deve dare risposta la CRI in Iraq?

In questa missione il nostro compito, al contrario di quello che è avvenuto a Bagdad, era di soddisfare le esigenze sanitarie del contingente italiano: tremila persone ormai in fase di riduzione e delle forze della coalizione. Collaboriamo con l’ospedale americano e abbiamo collaborato con altri ospedali che nel corso di questi anni hanno aperto e poi chiuso.

Lei è ufficiale riservista della CRI ci spiega esattamente cosa significa?

La CRI ha un corpo militare il cui corrispettivo femminile sono le crocerossine. Entrambi sono corpi ausiliari delle forze armate, quindi in particolari situazioni le forze militari italiane possono utilizzare i corpi sanitari della CRI. La missione Antica Babilonia ha suggellato un connubio tra le forze militari e la CRI  che di solito agisce autonomamente con tutte le sue componenti anche quelle militari.

Perché ha scelto di aderire alla CRI?

Sono in CRI dal ’90. Ero ancora studente di Medicina e facevo parte della componente civile dei Volontario di Soccorso. Ho prestato servizio sulle autoambulanze perché mi piaceva la Medicina d’urgenza in cui mi sono poi specializzato. Subito dopo la laurea ho fatto Medicina d’urgenza su strada quando a Lecce il 118 non si sapeva neppure cosa fosse. Sono stato fortunato perché ho lavorato in una realtà come l’Emilia Romagna che ha puntato subito su questo tipo di intervento sanitario.

Dall’impegno civile, all’impegno militare…

Sì, forse perché il mio percorso di studi è cominciato nel biennio dell’accademia di sanità militare per fare l’ufficiale medico. Poi ho concluso il corso di studi da normale studente. Credo che la passione per la divisa mi sia rimasta dentro.

Un amore abortito. Non le è piaciuta l’accademia militare?

Non è che non mi piacesse, ho incontrato delle difficoltà. A 18 anni è un po’ più difficile. A quell’età devono collimare tante cose.

Qual è stato l’elemento più scoraggiante? Forse la rigidità della vita militare?

In realtà fare una scelta come la mia, con maggiore consapevolezza e maturità, ti fa comprendere molte cose. Partecipando nel ’03 alla missione Antica Babilonia ho scoperto che le Forze Armate sono cambiate moltissimo e sicuramente in meglio. Secondo me una delle cose più importanti avvenute in questi anni è stata l’abolizione della ferma obbligatoria. Non c’è più quella stupida rigidità di un tempo, si rispettano ovviamente le gerarchie, ma il mio lavoro nell’ospedale militare non è molto diverso da quello che faccio nell’ospedale civile.

Forse perché il medico ha sempre un potere, il potere che gli viene dall’essere speranza di vita.  

Sicuramente, ma ha inciso anche l’aver professionalizzato le Forze Armate. 

Un medico impegnato nella sanità, come può dare la propria disponibilità alla CRI e quale iter deve seguire?

La CRI ha anticipato di molti anni quello che oggi è prassi nella sanità militare. Sfrutta le professionalità che sono normalmente impegnate in ambito pubblico o privato e che sono richiamabili perché hanno fatto una scelta in questo senso.

Quando avviene questa scelta?

Quando si decide di arruolarsi nel corpo militare della CRI. Per gli ufficiali medici l’iter è un po’ più lungo perché è necessario un decreto presidenziale che ti attribuisce  il grado di ufficiale e si entra in questa categoria dei cosiddetti riservisti. Come accade nell’esercito americano, dove i medici che si sono dichiarati favorevoli al richiamo sono impegnati nella loro normale attività e periodicamente sono convocati per addestramento o per la chiamata alle armi. Anche in Italia noi professionisti siamo impegnati ognuno nel proprio ambito lavorativo e siamo richiamati con un normale precetto militare. Nel momento in cui accettiamo il richiamo siamo a tutti gli effetti dei militari. Per Lecce è competente il Corpo Militare della CRI di Bari. Possono essere arruolati anche i riformati dal servizio militare, ma non chi ha prestato servizio civile come obiettore di coscienza.

Cosa accade del posto di lavoro?  

Il posto di lavoro continua a essere garantito come pure continua a essere erogato lo stipendio per intero.

Quindi non vi sono ulteriori indennità da parte della CRI?

No, no. solo in alcuni casi. Ad es. ai liberi professionisti che non prestando la propria opera professionale non hanno possibilità di guadagnare, la CRI riconosce uno stipendio pari al grado di competenza e una indennità di missione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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