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Sul fronte di guerra |
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La macchina militare che
sembrava destinata a girare con il motore al minimo, pigia il piede
sull’acceleratore e si impegna ad affrontare il percorso accidentato del
Libano. Per chi vive più o meno tranquillo, più o meno stressato dalla
quotidianità, la percezione della guerra è rarefatta. Certo ci si commuove
allorquando, malauguratamente, tornano in patria bare avvolte nel tricolore; ci
si commuove allorquando lo strazio dei parenti è impietosamente esibito dalla
voyeuristica telecamera di turno; ci si indigna per i diritti violati, ma
infine è tutto lontano, molto lontano. Siamo al centro dello scenario di guerra
pigiando un tasto del telecomando, siamo lontani ripigiandolo. Allora bisogna
farsela raccontare una missione, bisogna farsela raccontare da chi c’è stato in
una terra tormentata. Stelio Alvino è uno dei tanti leccesi che tornano nel
Salento per le vacanze, è uno dei tanti leccesi che sono andati altrove per
realizzarsi nella professione. Anestesista degli Ospedali Riuniti della Val di
Chiana a Montepulciano; ufficiale riservista del corpo militare della CRI dal
’94, quando era a Bologna per frequentare la facoltà di Medicina. Dal ’03 ha
partecipato con la CRI alla missione Antica Babilonia in Iraq. Quando è arrivato in Iraq la prima volta? Nel settembre ’03. L’ospedale
era già stato costruito dal turno precedente partito in giugno. Ci sono rimasto
sino a novembre, sono rientrato dieci giorni prima dell’attentato ai
carabinieri. Sono ritornato nel febbraio ’04. Una terza volta da settembre a
novembre ’04, ma distaccato negli Emirati Arabi dove c’è il centro di
smistamento dei feriti che arrivano dall’Iraq e dall’Afghanistan. L’ultima
missione l’ho fatta quest’anno dal 13 febbraio al 2 maggio. Quanto dura un turno? Variano da un minimo di 45 ad un
massimo di 60 giorni, non di più. Le Forze Armate, che lo fanno
professionalmente, hanno missioni che durano quattro mesi. Ero di missione
quando c’è stato l’ultimo attentato ai carabinieri. Che cosa ha provato? Che cosa si prova a vivere giorno per giorno con
la paura di poter morire? Era la prima volta che mi
trovavo a dover affrontare le conseguenze di un attentato. Quel giorno ero
impegnato in un altro servizio sanitario, destinato ai civili iracheni, siamo
stati richiamati via radio a un rapido rientro. Sin dalla mia prima missione
notai che le preoccupazioni ti angosciano di più prima della partenza, ma non
quando sei lì. Quando arrivi non provi più paura, forse perché entrando a
contatto con l’ambiente cominci a sentirlo tuo. È un meccanismo comune a tutti
noi e se a qualcuno dovesse capitare di non sentirsi così è bene farlo
rientrare perché potrebbe contagiare gli altri. Qual è la molla interiore che spinge un uomo a mettere a repentaglio
la propria vita? Mah… potrei dire che faccio il
medico, che ho voglia di fare del bene agli altri, ma sarebbe troppo riduttivo.
In realtà ci sono motivazioni psicologiche più profonde: che cosa sono capace
di fare; mi voglio mettere alla prova anche in situazioni estreme e voglio
vedere dove sono capace di arrivare. Credo che dietro a tutto il volontariato
ci siano queste dinamiche. Non so se il volontario è il più altruista o il più
egocentrico. Ci racconta cosa è accaduto nell’ultimo attentato ai carabinieri di
stanza a Nassirya? La notizia dell’attentato è
arrivata per radio e comunque le colonne militare sono monitorate con
apparecchiature sofisticatissime che rendono possibile il controllo anche
visivo. Al momento dell’attentato al blindato sono morti tre militari, di cui
uno rumeno. Ovviamente ci sono procedure prefissate… Certo. Il primo mezzo che arriva
sul luogo dell’attentato dà il cosiddetto METHANE, una sigla Nato.
Sostanzialmente è un elenco di istruzioni per fornire alla base informazioni
sul luogo, sul tipo di attentato, su eventuali pericoli, sul numero di feriti.
Una volta fornito il METHANE parte tutta la struttura necessaria per i
soccorsi. Se viene dato il “Major Incident” entra in azione la CRI che ha i
mezzi per arrivare sul posto e, dopo che l’area dell’incidente è stata
bonificata, in pochi minuti allestire un ospedale pneumatico per stabilizzare
sul posto i pazienti. A quel punto si fa la scelta su chi può essere salvato. Cioè? La medicina delle catastrofi,
che deriva dall’attività militare, ha delle linee guida e dei protocolli
internazionali molto precisi e obbliga a una scelta tra il ferito che non ce la
farà e quello che ha lesioni recuperabili. Impegnare su un ferito, che è andato
in arresto cardiaco, due tre persone
nel tentativo di rianimarlo, significa trascurare chi potrebbe sopravvivere. Con che stato d’animo si fa una scelta di questo tipo? Con uno stato d’animo che è
esattamente il contrario di quello che ci muove in ambito civile. Nella normale
attività professionale viene dato a tutti l’aiuto e l’appoggio per il trasporto
in ospedale, in situazioni estreme, quando la richiesta di intervento è
superiore alla possibilità di fornirlo, la scelta di priorità è un obbligo. Può
accadere anche in ambito civile, se si verifica una grande catastrofe. Ovviamente bisogna agire senza alcun tipo di coinvolgimento… Assolutamente nessuno. Dopo cosa rimane? Dopo c’è sicuramente il bisogno
di parlare di quanto è accaduto. Quindi si fa un “The Briefing” per valutare
come sono andate le cose, eliminare
eventuali buchi neri e fornire supporto psicologico. In questi anni si sta
sviluppando una psicologia delle catastrofi proprio per dare sostegno a chi
subisce questi eventi o a chi dovendo intervenire è costretto a scelte
difficili. A quali esigenze deve dare risposta la CRI in Iraq? In questa missione il nostro
compito, al contrario di quello che è avvenuto a Bagdad, era di soddisfare le
esigenze sanitarie del contingente italiano: tremila persone ormai in fase di
riduzione e delle forze della coalizione. Collaboriamo con l’ospedale americano
e abbiamo collaborato con altri ospedali che nel corso di questi anni hanno
aperto e poi chiuso. Lei è ufficiale riservista della CRI ci spiega esattamente cosa
significa? La CRI ha un corpo militare il
cui corrispettivo femminile sono le crocerossine. Entrambi sono corpi ausiliari
delle forze armate, quindi in particolari situazioni le forze militari italiane
possono utilizzare i corpi sanitari della CRI. La missione Antica Babilonia ha
suggellato un connubio tra le forze militari e la CRI che di solito agisce autonomamente con tutte le sue componenti
anche quelle militari. Perché ha scelto di aderire alla CRI? Sono in CRI dal ’90. Ero ancora
studente di Medicina e facevo parte della componente civile dei Volontario di
Soccorso. Ho prestato servizio sulle autoambulanze perché mi piaceva la
Medicina d’urgenza in cui mi sono poi specializzato. Subito dopo la laurea ho
fatto Medicina d’urgenza su strada quando a Lecce il 118 non si sapeva neppure
cosa fosse. Sono stato fortunato perché ho lavorato in una realtà come l’Emilia
Romagna che ha puntato subito su questo tipo di intervento sanitario. Dall’impegno civile, all’impegno militare… Sì, forse perché il mio percorso
di studi è cominciato nel biennio dell’accademia di sanità militare per fare
l’ufficiale medico. Poi ho concluso il corso di studi da normale studente.
Credo che la passione per la divisa mi sia rimasta dentro. Un amore abortito. Non le è piaciuta l’accademia militare? Non è che non mi piacesse, ho
incontrato delle difficoltà. A 18 anni è un po’ più difficile. A quell’età
devono collimare tante cose. Qual è stato l’elemento più scoraggiante? Forse la rigidità della vita
militare? In realtà fare una scelta come
la mia, con maggiore consapevolezza e maturità, ti fa comprendere molte cose.
Partecipando nel ’03 alla missione Antica Babilonia ho scoperto che le Forze
Armate sono cambiate moltissimo e sicuramente in meglio. Secondo me una delle
cose più importanti avvenute in questi anni è stata l’abolizione della ferma
obbligatoria. Non c’è più quella stupida rigidità di un tempo, si rispettano
ovviamente le gerarchie, ma il mio lavoro nell’ospedale militare non è molto
diverso da quello che faccio nell’ospedale civile. Forse perché il medico ha sempre un potere, il potere che gli viene
dall’essere speranza di vita. Sicuramente, ma ha inciso anche
l’aver professionalizzato le Forze Armate.
Un medico impegnato nella sanità, come può dare la propria
disponibilità alla CRI e quale iter deve seguire? La CRI ha anticipato di molti
anni quello che oggi è prassi nella sanità militare. Sfrutta le professionalità
che sono normalmente impegnate in ambito pubblico o privato e che sono
richiamabili perché hanno fatto una scelta in questo senso. Quando avviene questa scelta? Quando si decide di arruolarsi
nel corpo militare della CRI. Per gli ufficiali medici l’iter è un po’ più
lungo perché è necessario un decreto presidenziale che ti attribuisce il grado di ufficiale e si entra in questa
categoria dei cosiddetti riservisti. Come accade nell’esercito americano, dove
i medici che si sono dichiarati favorevoli al richiamo sono impegnati nella
loro normale attività e periodicamente sono convocati per addestramento o per
la chiamata alle armi. Anche in Italia noi professionisti siamo impegnati
ognuno nel proprio ambito lavorativo e siamo richiamati con un normale precetto
militare. Nel momento in cui accettiamo il richiamo siamo a tutti gli effetti
dei militari. Per Lecce è competente il Corpo Militare della CRI di Bari.
Possono essere arruolati anche i riformati dal servizio militare, ma non chi ha
prestato servizio civile come obiettore di coscienza. Cosa accade del posto di lavoro? Il posto di lavoro continua a
essere garantito come pure continua a essere erogato lo stipendio per intero. Quindi non vi sono ulteriori indennità da parte della CRI? No, no. solo in alcuni casi. Ad
es. ai liberi professionisti che non prestando la propria opera professionale
non hanno possibilità di guadagnare, la CRI riconosce uno stipendio pari al
grado di competenza e una indennità di missione.
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