|
|
Il Culto dei Morti nella Puglia preistorica |
|
“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?”. Così Ugo
Foscolo inizia il suo carme i “Sepolcri”,
nel quale riflette sulla morte e sui riti ad essa connessi, creando una “corrispondenza d’amorosi sensi” fra
l’estinto e i suoi cari. Da
secoli il tema della morte e di una possibile vita dopo di essa ha arrovellato
le menti di molti. Qualcuno ha trovato delle risposte, aggrappandosi al proprio
credo religioso; qualcun altro, invece, non è riuscito a soddisfare la sua sete
di verità ed è rimasto pieno di dubbi. È
certo che, fin dai tempi preistorici, gli uomini hanno sempre affrontato tale
argomento e hanno creato dei cerimoniali per commemorare i propri defunti e per
ricordarli nel tempo. La Puglia ci offre non pochi esempi di tali costumanze a
partire dalla notte dei tempi. Nel
tardo Neolitico le inumazioni venivano fatte negli “ipogei”, camere sotterranee
situate, solitamente, in campagna. Oggetti vari, come vasellame e utensili,
erano riposti in tali siti perché si credeva che, nella vita dopo la morte,
potessero servire agli spiriti degli scomparsi, così come erano serviti loro
nella vita terrena. Queste tombe erano, nella maggior parte dei casi,
collettive, tuttavia ne esistevano alcune di tipo individuale, probabilmente
destinate alle famiglie dei capi delle tribù. Nell’età
del Bronzo si cominciò a deporre i morti in posizione rannicchiata su un
fianco. Sono state ritrovate ad Arpi, Ordina, Monte Saraceno e a Salapia tombe
a tumulo e a fossa. Le prime, presentavano una sepoltura a fossa attorniata da
sassi posti in circolo che ne delimitavano l’area. Intorno
al IV secolo a.C. i Messapi, una popolazione dalle origini incerte che
s'insediò nel Salento, dava molta importanza al culto degli estinti. Tre erano
le tipologie delle loro sepolture. Le tombe a semicamera presentavano imponenti
lastre di copertura, quelle a camera erano molto spesso intonacate e abbellite
con dipinti raffiguranti varie scene, e quelle a fossa. L’assegnazione di una o
dell’altra tomba era determinata dal ceto sociale di appartenenza che poneva il
popolo su differenti livelli. Tali luoghi conservavano anche gli oggetti di
proprietà del defunto. Diverse
erano le tombe dei bambini, i quali venivano riposti dentro grossi contenitori
che erano posizionati poi sulle estremità delle sepolture degli adulti o in
mezzo a delle tegole. Altra costumanza messapica era quella di riporre i morti
seduti, uno accanto all’altro, all’interno di alcune camere funerarie. Sempre
a questo secolo risalgono delle particolari tombe a camera destinate a chi
faceva parte di un rango elevato e ricavate scavando nella roccia. L’atrio
d’ingresso, a cielo aperto, introduceva in un corridoio a gradini. L’accesso
alla cella funeraria veniva, per così dire, abbellito da due blocchi di pietra
monolitici. Tali tombe contenevano più salme ma tutte appartenenti alla
medesima famiglia. Le pareti degli androni erano spesso ricoperte da dipinti che
raffiguravano melograni, ghirlande e altri manufatti propri delle offerte
rituali, altre volte rappresentavano le dimore degli estinti o armi. Le salme
erano collocate su letti funebri, sopra a sedili posti nella roccia o in alcune
nicchie. L’elemento
comune a questi usi mortuari era la necessità di mantenere un legame vivo con
chi abbandonava questa terra. Si sente ancora oggi, come allora, la forte
esigenza di credere che un giorno sarà possibile rincontrare i nostri cari in
un altro mondo, lontano da noi viventi ma così vicino se si accoglie la
spiritualità che è in ognuno di noi. Una terra oltre le nuvole, più in alto
delle stelle dove cominciare una nuova vita liberandosi delle negatività e
delle brutture terrestri. Un mondo “unico” che ha ispirato molti scrittori e
numerosi poeti che si sono interrogati per anni sul quesito “c’è una vita dopo la morte?”. La
natura umana, se da una parte non ci permette di accettare la separazione da
coloro che amiamo, dall’altra ci dona un luogo dove poter ricordare e piangere
chi non c’è più. Il Foscolo nel 1806 scrisse “il poema della morte e della vita, del loro perenne incontrarsi e
scontrarsi, della loro continua e drammatica compresenza”, scrive Mario
Pazzaglia. Significative
ci appaiono queste parole: “Celeste è
questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per
lei si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi…” (Sepolcri, vv.
29-33). La
“corrispondenza d’amorosi sensi”,
come la chiama il Foscolo, ci fa sentire più vicini a chi non è più con noi nel
corpo, ma che lo è certamente nello spirito.
|
|
|