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ARTE/ Parigi celebra l'arte italiana
Al Grand Palais in mostra i capolavori della prima metà del Novecento

  
di Michele DE LUCA

Un inedito itinerario all’interno della pittura della “macchia”, volto a studiare con rinnovata attenzione il suo sfaccettato,

Il nome del critico Philippe Dagen, che ha “stroncato” sulle prestigiose colonne del quotidiano “Le Monde” del 5 aprile (cui peraltro ha fatto eco qualche giorno dopo “Liberation”), rimarrà ormai indelebilmente legato (come Lee Oswald a John Kennedy) ai destini e, successivamente, alla memoria, del grande omaggio parigino al primo mezzo secolo dell’arte italiana del Novecento, illustrato dalle centoventi opere che scandiscono il percorso della mostra “Italia Nova. Un’avventura dell’arte italiana, 1900 – 1950” allestita sotto le sontuose cupole del Grand Palais. “Ci sono mostre che incantano. Altre annoiano e deludono. Poche mettono in collera. Italia Nova appartiene a questa minoranza”, ha scritto Dagen suscitando polemiche e risentite reazioni, come quella (per citarne una), sul “Giornale dell’Arte”, di Claudia Gian Ferrari, a cui sembra incredibile che “ci sia ancora chi si scagli con insensata veemenza contro quel periodo definendolo tout court e certamente in modo banale e semplicistico, compromesso col regime”. Date queste premesse, la mostra certamente continuerà a far registrare prese di posizioni e comunque ad alimentare un dibattito che, in ogni caso, va salutato come vitale, sempre che rimanga nei binari della critica e dell’analisi storica, scevra possibilmente da pregiudizi e da comode o scontate catalogazioni. Provare per credere: a noi, come al pubblico con cui abbiamo condiviso la visita, non è sembrato, in ogni caso, che la mostra annoiasse, deludesse, o addirittura suscitasse collera…

L’esposizione, curata da Gabriella Belli, direttrice del Mart, e Guy Cogeval, direttore del Musée des Beaux-Arts di Montreal (ottimo il catalogo edito da Skira), prodotta dalla Réunion des Musées Nationaux e dal Mart di Trento e Rovereto (dalle cui collezioni provengono numerosi pezzi) insieme ad altri prestigiosi musei italiani, percorre la storia della nostra arte nei primi cinque decenni del secolo appena archiviato individuandone i fermenti innovatori e i “nodi” problematici più significativi in una riconsiderazione storico critica articolata e nell’ambito della creazione artistica contemporanea in Europa. Nel periodo in questione avvengono importanti cambiamenti in un paese come il nostro che viene ad occupare una presenza sempre più importante nel panorama europeo, innanzitutto grazie al movimento futurista, ma anche per l’originale contributo dato dagli artisti italiani alla riscoperta di quella “misura classica” che percorre l’intero vecchio continente negli anni che seguono la sperimentazione delle prime avanguardie storiche. Ed è proprio che su questo duplice binario (l’anti-tradizione dei futuristi da un lato, e il nuovo classicismo dall’altro) che si snoda l’avvincente percorso espositivo.

Iniziando da un Balla mozzafiato, qual è Elisa sulla porta (1904), una sorta di ammiccante invito a condividere l’avventura artistica del secolo appena nato; nei quadri di Boccioni, Carrà e Severini, che seguono, si respira una vera ventata di modernità, nel superamento del realismo e del simbolismo che avevano connotato l’ultimo Ottocento. In particolare, le boccioniane Officine a Porta Romana (1909, anno in cui, proprio a Parigi, Marinetti pubblica su “Le Figaro” il Manifesto del Futurismo) anticipano istanze ed atmosfere proprie di questo movimento, che vediamo riattraversato con un’ampia scelta di opere in tutta la sua vicenda, dai suoi inizi fino a tutti gli anni Trenta, con le presenze di Balla, Depero e Prampolini, ma anche di Sironi, Renato Bertelli (con il “profilo continuo” del Duce, 1933), Thayath e l’aeropittore Tullio Crali, le cui “visioni futuriste” sono dense di ammirazione per il progresso scientifico e tecnologico e capaci di svecchiare il provinciale ambiente artistico-culturale italiano inserendolo, rumorosamente ma autorevolmente, nel vivo delle più moderne correnti internazionali.

Il soggiorno parigino, tra il 1911 e il 1915, fu fondamentale per Giorgio de Chirico e il fratello Savinio, in quella fase in cui la riscoperta della “misura classica” sfociava nella pittura metafisica; proprio nella capitale francese nascono alcuni capolavori dechirichiani, come La matinée angoissante e L’ennemie du poète, che si possono ammirare al Grand Palais; un’esperienza che, dopo la prima guerra mondiale, verrà condivisa, sia pure da ciascuno in maniera del tutto originale, da Carrà, de Pisis, e da Morandi. Lo stesso anelito classicista si tradurrà nel “realismo magico” di Casorati, Donghi, Severini e Cagnaccio di San Pietro, che si intreccia con il “primitivismo” (che si ispira a Giotto e a Paolo Uccello) di Carrà, Campigli ed Arturo Martini, qui rappresentato dal superbo marmo Nudo che nuota sott’acqua, uno dei massimi capolavori della scultura tra le due guerre, curiosamente esposto proprio a Parigi nel 1950.

Segue un omaggio a Morandi, con una dozzina di opere provenienti dalla collezione Giovanardi e conservate al Mart; una piccola ma affascinante “personale” del grande bolognese, di cui de Chirico ebbe a scrivere nel 1922: “Il observe un ensemble d’objets sur la table avec la meme émotion qu’éprouvait en son coeur le voyageur dans la Grèce ancienne lorsqu’il admirait les foretes et les vallées et les montagnes, demeures supposées de divinités sublimes et étonnantes”. La selezione morandiana, che copre un periodo creativo che va dal 1921 al 1960, è l’unico filo  che congiunge gli anni Trenta alla sezione “Tabula rasa” (anni Cinquanta con sconfinamenti, oltre il titolo della mostra, nei Sessanta: opere di Fontana, Burri, Manzoni, Consagra), saltando a piè pari i Quaranta, fatta eccezione per il citato Martini, la cui scultura è datata 1941-42. La domanda sorge spontanea: si poteva delimitare la ricognizione agli anni Trenta, oppure offrire con più opere una maggiore rappresentatività dei Quaranta?

 

 

 


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