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ARTE/ Parigi celebra l'arte italiana |
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Il nome del critico Philippe
Dagen, che ha “stroncato” sulle prestigiose colonne del quotidiano “Le Monde”
del 5 aprile (cui peraltro ha fatto eco qualche giorno dopo “Liberation”),
rimarrà ormai indelebilmente legato (come Lee Oswald a John Kennedy) ai destini
e, successivamente, alla memoria, del grande omaggio parigino al primo mezzo
secolo dell’arte italiana del Novecento, illustrato dalle centoventi opere che
scandiscono il percorso della mostra “Italia Nova. Un’avventura dell’arte
italiana, 1900 – 1950” allestita sotto le sontuose cupole del Grand Palais. “Ci
sono mostre che incantano. Altre annoiano e deludono. Poche mettono in collera.
Italia Nova appartiene a questa
minoranza”, ha scritto Dagen suscitando polemiche e risentite reazioni, come
quella (per citarne una), sul “Giornale dell’Arte”, di Claudia Gian Ferrari, a
cui sembra incredibile che “ci sia ancora chi si scagli con insensata veemenza
contro quel periodo definendolo tout
court e certamente in modo banale e semplicistico, compromesso col regime”.
Date queste premesse, la mostra certamente continuerà a far registrare prese di
posizioni e comunque ad alimentare un dibattito che, in ogni caso, va salutato
come vitale, sempre che rimanga nei binari della critica e dell’analisi
storica, scevra possibilmente da pregiudizi e da comode o scontate
catalogazioni. Provare per credere: a noi, come al pubblico con cui abbiamo
condiviso la visita, non è sembrato, in ogni caso, che la mostra annoiasse,
deludesse, o addirittura suscitasse collera… L’esposizione, curata da
Gabriella Belli, direttrice del Mart, e Guy Cogeval, direttore del Musée des
Beaux-Arts di Montreal (ottimo il catalogo edito da Skira), prodotta dalla
Réunion des Musées Nationaux e dal Mart di Trento e Rovereto (dalle cui
collezioni provengono numerosi pezzi) insieme ad altri prestigiosi musei
italiani, percorre la storia della nostra arte nei primi cinque decenni del
secolo appena archiviato individuandone i fermenti innovatori e i “nodi”
problematici più significativi in una riconsiderazione storico critica
articolata e nell’ambito della creazione artistica contemporanea in Europa. Nel
periodo in questione avvengono importanti cambiamenti in un paese come il
nostro che viene ad occupare una presenza sempre più importante nel panorama
europeo, innanzitutto grazie al movimento futurista, ma anche per l’originale
contributo dato dagli artisti italiani alla riscoperta di quella “misura classica”
che percorre l’intero vecchio continente negli anni che seguono la
sperimentazione delle prime avanguardie storiche. Ed è proprio che su questo
duplice binario (l’anti-tradizione dei futuristi da un lato, e il nuovo
classicismo dall’altro) che si snoda l’avvincente percorso espositivo. Iniziando da un Balla
mozzafiato, qual è Elisa sulla porta
(1904), una sorta di ammiccante invito a condividere l’avventura artistica del
secolo appena nato; nei quadri di Boccioni, Carrà e Severini, che seguono, si
respira una vera ventata di modernità, nel superamento del realismo e del
simbolismo che avevano connotato l’ultimo Ottocento. In particolare, le
boccioniane Officine a Porta Romana
(1909, anno in cui, proprio a Parigi, Marinetti pubblica su “Le Figaro” il
Manifesto del Futurismo) anticipano istanze ed atmosfere proprie di questo
movimento, che vediamo riattraversato con un’ampia scelta di opere in tutta la
sua vicenda, dai suoi inizi fino a tutti gli anni Trenta, con le presenze di
Balla, Depero e Prampolini, ma anche di Sironi, Renato Bertelli (con il
“profilo continuo” del Duce, 1933), Thayath e l’aeropittore Tullio Crali, le cui “visioni futuriste” sono dense di
ammirazione per il progresso scientifico e tecnologico e capaci di svecchiare
il provinciale ambiente artistico-culturale italiano inserendolo, rumorosamente
ma autorevolmente, nel vivo delle più moderne correnti internazionali. Il soggiorno parigino, tra il
1911 e il 1915, fu fondamentale per Giorgio de Chirico e il fratello Savinio, in
quella fase in cui la riscoperta della “misura classica” sfociava nella pittura
metafisica; proprio nella capitale francese nascono alcuni capolavori
dechirichiani, come La matinée
angoissante e L’ennemie du poète,
che si possono ammirare al Grand Palais; un’esperienza che, dopo la prima
guerra mondiale, verrà condivisa, sia pure da ciascuno in maniera del tutto
originale, da Carrà, de Pisis, e da Morandi. Lo stesso anelito classicista si
tradurrà nel “realismo magico” di Casorati, Donghi, Severini e Cagnaccio di San
Pietro, che si intreccia con il “primitivismo” (che si ispira a Giotto e a
Paolo Uccello) di Carrà, Campigli ed Arturo Martini, qui rappresentato dal
superbo marmo Nudo che nuota sott’acqua,
uno dei massimi capolavori della scultura tra le due guerre, curiosamente esposto
proprio a Parigi nel 1950. Segue
un omaggio a Morandi, con una dozzina di opere provenienti dalla collezione
Giovanardi e conservate al Mart; una piccola ma affascinante “personale” del
grande bolognese, di cui de Chirico ebbe a scrivere nel 1922: “Il observe un ensemble d’objets sur la table
avec la meme émotion qu’éprouvait en son coeur le voyageur dans la Grèce
ancienne lorsqu’il admirait les foretes et les vallées et les montagnes,
demeures supposées de divinités sublimes et étonnantes”. La
selezione morandiana, che copre un periodo creativo che va dal 1921 al 1960, è
l’unico filo che congiunge gli anni
Trenta alla sezione “Tabula rasa” (anni Cinquanta con sconfinamenti, oltre il
titolo della mostra, nei Sessanta: opere di Fontana, Burri, Manzoni, Consagra),
saltando a piè pari i Quaranta, fatta eccezione per il citato Martini, la cui
scultura è datata 1941-42. La domanda sorge spontanea: si poteva delimitare la
ricognizione agli anni Trenta, oppure offrire con più opere una maggiore
rappresentatività dei Quaranta?
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