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ARTE/ Salvator Dalì, surrealista integrale |
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“Esistono diversi modi di concepire il surrealismo. Lo si può
intendere come movimento organizzato, che prende vita nel 1924 con la
pubblicazione del Manifesto e che si
identifica in primo luogo con le scelte del suo fondatore e teorico André
Breton, oppure lo si può intendere come una visione del mondo, una concezione
dell’arte e della vita, che esiste da sempre e non avrà mai fine. Vi è poi una
visione più sfumata che, pur salvaguardando la dimensione storica del
surrealismo, ne rintraccia lo spirito nelle opere che ha prodotto, valutandone
l’attuazione concreta nell’incontro tra le personalità creatrici e l’urgenza
delle nuove istanze che si fanno strada a partire dai primi anni Venti. In
quest’ottica la produzione di Salvador Dalì non può non apparire come
l’incarnazione più coerente della poetica surrealista. Paradossalmente, è stata
proprio la sua assoluta fedeltà al dettato del Manifesto ad allontanarlo dai compagni e a provocare la sua
estromissione dal gruppo”; così ci dice Ilaria Ortolina, curatrice, insieme a
Laura Ravasi, della imponente mostra ( e del catalogo edito da Mazzotta) Salvador Dalì e i surrealisti. L’opera
grafica, allestita tra gli stucchi settecenteschi della ex Chiesa di S.
Agostino – Pinacoteca Marco Moretti a
Civitanova Marche Alta, uno degli angoli più suggestivi della provincia
di Macerata, a due passi dalla casa natale di Annibal Caro, il famosissimo
traduttore dell’Eneide. In particolare, va detto che è stata proprio l’incessante applicazione
da parte del geniale artista catalano (Figueras 1904 – 1989) del “dettato del
pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di
qualsiasi preoccupazione estetica o morale” a determinare la “scomunica” di
Breton, e che gli consentirà di considerarsi l’unico “surrealista integrale”.
Certo, il lavoro e la figura artistica di Dalì non si esauriscono nel
surrealismo; ma di questo egli fece una regola di vita, anzi, come sottolinea
ancora l’Ortolina, “di una vita senza regole, se non quelle dettate dal suo
mondo interiore, dalle sue ossessioni e idiosincrasie”. La sua singolare
vicenda, infatti, è connotata da una perfetta identificazione tra vita e arte e
dalla costruzione della propria esistenza come un’opera d’arte. Promossa dal Comune di Civitanova e dalla Fondazione Mazzotta con il
patrocinio di diversi Enti e il contributo di numerosi sostenitori privati, la
mostra si offre come uno dei principali avvenimenti culturali dell’estate
marchigiana, sia per la ricchezza dell’esposizione (oltre centosessanta opere
grafiche di Dalì e dei suoi più originali compagni di strada, da de Chirico a
Man Ray, da Max Ernst a Matta, da Picasso a Duchamp, per citarne solo alcuni;
si possono ammirare anche alcuni “cadavres exquis”, ovvero disegni realizzati a
più mani in un curioso gioco di associazione di immagini), sia per l’importanza
dell’artista catalano e degli altri surrealisti nella storia dell’arte del
Novecento. L’evento espositivo dà occasione di rivisitare storicamente e
criticamente un personaggio che ha avuto, oltre ad un grande successo
commerciale, una notorietà senza pari presso il grande pubblico e una costante
attenzione da parte dei media, ma che
ha suscitato anche tanta diffidenza da parte della critica più esigente, che
solo negli ultimi anni ha cominciato a mettere da parte non pochi pregiudizi
sulla sua figura (da ultimo, si ricorderà la importante mostra di Palazzo
Grassi a Venezia). Partendo
dalla sua personale teoria della “paranoia critica” sviluppò nelle sue opere
tematiche di carattere psicoanalitico, con virtuosistici e paradossali
accostamenti di immagini e situazioni che immancabilmente suscitano sorpresa e
curiosità nell’osservatore. La sua formazione avvenne principalmente alla
Scuola di Belle Arti di Madrid, dove ebbe modo di incontrare Federico Garcia
Lorca e Luis Bunuel. La sua pittura, nei primi anni Venti, fu contrassegnata
via via da suggestioni futuriste, metafisiche e cubiste, mescolate alla grande
ammirazione per Meissonnier, finchè non vide, in riproduzione, opere di Ernst,
Mirò, Breton e Eluard, che lo
orientarono verso il surrealismo, di cui diede tuttavia un’interpretazione
estremamente personale, caratterizzata dalla combinazione della psicoanalisi
freudiana con quadri di de Chirico, Magritte, dello stesso Ernst e di Tanguy;
con il risultato di una pittura illusionistica, fondata su una intensa
concentrazione di immagini popolate da ossessioni. Successivamente, la sua creatività
si sarebbe orientata verso un realismo accademico, via via sempre più
virtuosistico, accompagnato da una sorta di delirio deformante e perfino
macabro; per approdare, nel dopoguerra,
ad una produzione sempre più copiosa e libera nell’invenzione, anche nel
campo dell’illustrazione e della grafica, in cui alla perizia tecnica si
associa una straripante fantasia, capace di inventare e intrecciare elementi
realistici e simboli, ricordi d’infanzia e paesaggi catalani con libere
associazioni del “delirio paranoico”. Poeta,
scrittore e uomo di cinema accanto a Buñuel e Hitchcock (anche quest’aspetto
viene ricordato con una rassegna cinematografica), oltre che pittore e
scultore, Dalí fu anche un grande comunicatore che seppe imporre la propria
personalità a livello internazionale grazie all’originalità delle sue teorie e
dei suoi atteggiamenti spregiudicati e anticonvenzionali, ben riassunti nel
famoso manifesto My lucha: “Contro la
semplicità, complessità; contro la uniformità, diversificazione; contro il
collettivo, l’individuale; contro la politica, la metafisica; contro la
rivoluzione, la tradizione; contro la medicina, la magia; contro lo
scetticismo, la fede”. Il “caso” Dalì, nel panorama artistico del secolo appena
archiviato, rimane abbastanza singolare, poiché non è stata soltanto la sua
produzione ad aver influito nell’arte a lui contemporanea, ma anche il modo di
gestire il suo “personaggio”, la capacità di servirsi dei mezzi di
comunicazione e di recepire tempestivamente le trasformazioni culturali del
tempo. E qui è spontaneo il “rinvio” alla vicenda di Andy Warhol (a cui proprio
Civitanova dedicò la scorsa estate una riuscitissima mostra), che seguì di
qualche decennio l’esperienza del grande catalano. Come il protagonista della pop-art, Dalì ha saputo percepire i
meccanismi di una società dominata dall’immagine, dove si confonde sempre più
il confine tra cultura “alta” e cultura “popolare” e l’artista diventa primo
attore in uno spettacolo che si replica quotidianamente.
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