|
|
Le imposte angioine in Terra d'Otranto |
|
Nel 1266, Carlo I d’Angiò
conquistò il Regno Meridionale e fece di Napoli la capitale del suo impero. Il
monarca non apportò modifiche sostanziali nella struttura amministrativa e
istituzionale dello Stato ma, al contrario, conservò l’apparato di Federico II,
le cui leggi si rivelarono valide ai fini di tutelare l’equilibrio in quel
delicato momento di passaggio da un governo ad un altro. Un documento angioino, “Cedularia Terrai Idronti”, redatto tra
il 1377 e il 1378, delinea la densità geografica della popolazione della
provincia di Terra d’Otranto, ne segna i movimenti e, cosa più importante, “contiene interessanti aspetti per la
conoscenza del territorio feudale e fiscale della Provincia”, scrive Luigi
Carducci. Degna di attenzione la
segnalazione della somma che ogni paese doveva pagare in base alle famiglie
residenti posta affianco al nome di ciascun centro. Analizzando il testo in
maniera più approfondita, si notano due punti presi in esame: l’intestazione
dei feudi e dei baroni minori disseminati nelle terre, e l’imposizione delle
imposte da versare con cadenza annuale alla Corona Napoletana, la quale doveva
rimpinguare le proprie casse per far fronte al debito pubblico assunto tramite
i “mutui a interesse” con diverse banche, in particolar modo con quelle
fiorentine e toscane. I regnanti obbligavano, così, i funzionari a compilare
debitamente i “cedularia”, appositi
libricini che registravano la situazione tassativa di ogni singola provincia
del Meridione. I tesorieri della Corona
fungevano poi da “vigilantes” della
suddivisione delle imposte, calcolando i beni posseduti e il numero dei
componenti di ciascun nucleo familiare. “Le
tassazioni avvenivano sulla base della stima sui beni immobili e sulle terre”,
spiega ancora il Carducci, “stima fissata
da un’apposita Commissione costituita da due maiores cives, da due mediocres e da due minores seu inferiores fideles et ad hoc idoneos”. Il meccanismo adoperato per
stabilire il calcolo demografico di ogni casale dipendeva da una serie di
operazioni numeriche. Per ciascuna “oncia”,
antica unità di misura di peso (30 gr circa), si rappresentavano quattro nuclei
familiari, i quali, moltiplicati per cinque componenti, secondo la media,
davano venti residenti. “Se ad ogni
famiglia corrispondeva la tassa di un vecchio Augustale (moneta d’oro fatta
coniare da Federico II), ciò significava
che un’oncia equivaleva a sua volta a quindici carlini (monete d’oro o
d’argento), e cioè tre carlini per ogni membro della famiglia” (L.C.). Il conteggio sopraindicato non
teneva conto del censimento concreto dei soggetti presenti, ma esclusivamente
della quantità dei “fuochi”(famiglie).
Ciò rendeva comunque possibile calcolare la concentrazione demografica di ogni
singolo paese, basandosi esclusivamente sui nuclei familiari residenti. I “Cedularia”, dunque, venivano compilati per le imposte dirette; per
quelle indirette, invece, si delegava tutto al sindaco o alle autorità locali
in genere, dato che esse riguardavano tutte le attività cittadine. Per fare
qualche esempio, erano assoggettati a dazio: metalli, animali, legname, cera,
miele, pece, panni di lana e di lino, erbe commestibili, frutta, orci, vasi di
creta, carne di capra, di vacca, di maiale, di giumenta, di pecora, sale,
pesce. Vi era anche una tassa che si
pagava per alcuni mestieri, come il commercio, la pesca e l’agricoltura. Non è poi cambiato molto da
allora. Le tasse, anche nei tempi moderni, sono ancora bocconi amari da
ingoiare per la straganza maggioranza delle famiglie. E gli italiani diventano
sempre più “medi” e, addirittura, non pochi di quelli che in principio potevano
ritenersi tali, ora occupano un posto al di sotto della soglia di povertà.
|
|
|