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LIBRI/ Il Proco Troiano, storia di ieri dell'Italia di oggi

  
di Carlo STASI

Il porco troiano

Di Pietro e lo scandalo di Tangentopoli era appena balzato agli onori delle cronache quando l'editore Schena di Fasano pubblicava un romanzo che quei fatti descriveva puntualmente, anticipandone certi temi e denunciando un atavico sistema di sopraffazione.

"Il Porco Troiano" (Schena Ed., Fasano, pagg. 137) è ambientato nell'antica Roma ai tempi di Orazio Coclite, l'eroe che inchiodò gli etruschi di Porsenna sul Ponte Sublicio. L'eroe festeggia la sua impresa con gli amici in un banchetto dove il piatto forte è un maiale. Ma, come il cavallo di Troia nascondeva nella pancia i greci guidati da Ulisse, il maiale di Orazio è detto appunto “troiano” perché è ripieno di "salsicce, fegatelli, rognoni, involtini e tanto altro ben di Giove".

Ed ecco la metafora: quel ripieno rappresenta le tante disavventure che il malcapitato eroe, avvezzo a lottare lealmente contro il nemico, deve subire passando tra i meandri intangibili della burocrazia militare e politica di una Roma antica così simile alla Roma, alla Milano e all'Italia di oggi.

Ma il romanzo stesso rientra nella metafora, è esso stesso un "porco troiano" pieno com'è di sorprese che, con un crescendo esilarante, portano verso un finale ancor più sorprendente se non fosse così verosimile.

Enzo Garganese, l'autore di questa 'gustosissima' (è proprio il caso di dirlo) e, al tempo stesso, amara satira, è nato nel 1944 a Francavilla Fontana (Brindisi) ed in questa sua prima opera narrativa mostra una scrittura tanto sciolta ed al tempo stesso sorvegliata da raggiungere un equilibrio stilistico non comune, mentre la sua vena, ora umoristica ora satirica, non può non richiamare alla mente del lettore le opere di Orwell, Swift, Esopo, Fedro, La Fontaine, ecc.

Senza voler fare confronti coi miti letterari, ci limitiamo a dire che il romanzo di Garganese si legge d'un fiato grazie alla scrittura avvincente ed alla storia coinvolgente.

Non per questo non ci si può soffermare ad ogni passo, poiché l'abilità dello scrittore nel distribuire personaggi, situazioni e considerazioni, induce il lettore ora a meditare su certi meccanismi psicologici ora a godere di certe gustose macchiette.

La satira, permeata di sfumature ironiche, è tanto più feroce quanto più è composta. I nomi stessi dei personaggi sono allusivi: Publio Giulio Cornuto, diventato capitano grazie alle raccomandazioni, vuole riscattarsi dalle frustrazioni a colpi di carta bollata, cavilli e sofismi, creando un 'intoppo' alla proposta di medaglia al valore per Orazio che il colonnello Lucullo inoltra al R.I.SO.T. (Riconoscimenti Importanti Sottufficiali o Truppa), sezione del Ministero della Difesa.

Poi ci sono il colonnello Bestia, il cuoco Porcino, gli amici Carbone, Crispo e Spurio Lario, ecc.; ma colui che svetta su tutti come figura emblematica del malcostume politico, della corruzione, del clientelismo e della mediocrità al potere è Memmio Fure che così rimprovera Orazio: "Bloccare da solo l'intero esercito nemico! Ma son cose che si fanno! ... se lo Stato riconosce ufficialmente il tuo gesto disonora tutto l'esercito di Roma!".

Ma Orazio, con la sua protesta "minaccia tutto il sistema" e, come suggerisce il viscido Fure, "va punito".  E se l'usciere di Fure ha "la scogliosi da inchino", se il suo ufficio è una bolgia infernale dove un nugolo di miserabili, disoccupati, ecc. va ad implorare e a vendersi per un diritto, se persino gli amici lo abbandonano, Orazio, confortato dalla moglie (forse il personaggio più idealizzato e quindi meno verosimile di tutto il romanzo), non si piega, ed il suo dramma (quel "vivere morendo ad ogni istante che trascorre") finisce in beffa.

A causa della sua onestà Orazio diventa vittima e carnefice di se stesso, e non ha neppure la fortuna di incontrare un Di Pietro ante litteram che faccia giustizia.

Già, è proprio un Di Pietro il personaggio che manca al romanzo. Ma, come abbiamo detto, il romanzo è stato scritto quando di Di Pietro non si intravedeva neppure l'ombra, e con lui la speranza (ormai abbondantemente disattesa) che qualcosa potesse cambiare.

 

 

 


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